I narcos casertani, la ‘Ndrangheta e la Colombia. Uno dei due fratelli si è pentito e ha parlato con i giudici

14 Novembre 2019 - 17:30

CASERTA (red.cro.) – Giulio Fabio Rubino, 34 anni, ha parlato ai giudici del Tribunale della Libertà di Reggio Calabria nel processo che lo vede accusato di spaccio internazionale di cocaina, assieme al fratello Serafino, datosi alla macchia in Sudamerica. L’inchiesta ha permesso di colpire la ‘ndrangheta e le reti di supporto che in tutta Europa hanno permesso non solo di importare droga (sono stimate almeno 2 tonnellate di cocaina importate nel vecchio continente) ma anche di riciclare e reinvestire i profitti che ne derivano attraverso la creazione di ristoranti in Germania, Belgio ed Olanda. associazione dedita al traffico internazionale di sostanze stupefacenti, associazione mafiosa, riciclaggio, fittizia intestazione di beni ed altri reati, aggravati dalle modalità mafiose.

Oggi, nell’udienza preliminare, sono stati depositati i verbali, cioè quelo che Giulio Fabio Rubino ha rivelato ai Pm. I due fratelli, insieme a Maria Rosaria Campagna, napoletana e compagna del boss della mafia catanese Salvatore Cappello detto “Turi”, avrebbero trattato con i narcos colombiani la cocaina da acquistare per conto della ‘Ndrangheta, istituendo un cartello del narcotraffico internazionale. Secondo gli inquirenti i due fratelli avrebbero istituito un vero e proprio cartello del narcotraffico internazionale insieme a Maria Rosaria Campagna, napoletana e compagna del boss della mafia catanese Salvatore Cappello detto “Turi”, ed al figlio della coppia. Serafino Rubino curava le trattative direttamente con i cartelli colombiani grazie ad una rete di rapporti in Sudamerica. Suo fratello Fabio Giulio si occupava del recupero dello stupefacente in Italia ma anche nelle relazioni d’affari con i co-finanziatori delle pertite di droga. Infine Maria Rosaria Campagna oltre a finanziare la consorteria criminale era specializzata nel recupero di considerevoli quantitativi di cocaina in qualsiasi porto d’Italia dove venisse spedita ma principalmente nel porto di Napoli, dove poteva contare, ad avviso dei magistrati, su dei “ganci” interni, allo stato rimasti non identificati.