E’ morto il questore Gigi Botte. E’ stato una colonna della polizia di CASERTA. Per me, invece, ci ha lasciati Gino, compaesano di identità

21 Settembre 2021 - 14:00

E’ mancato stamattina in una stanza dell’ospedale Monaldi di Napoli ad epilogo di una breve e letale malattia

 

CASERTA – (Gianluigi Guarino) Per Caserta, da qualche ora, è venuto a mancare Luigi Botte, che i suoi colleghi della questura, dagli alti dirigenti ai poliziotti semplici di carriera, ma ricchi in dignità professionale, chiamavano tutti Gigi. A San Lorenzello, nella nostra San Lorenzello, è morto Gino, semplicemente Gino, che ha amato la sua terra, la sua famiglia e la sua gente al di là di ogni altra cosa, sottendendo a questi valori, mai assalito dal ripensamento e dal rimpianto, una carriera che avrebbe potuta essere, se lui lo avesse veramente voluto, ancora più luminosa e ancor più prodiga di azioni messe al servizio del Paese.

Perché Gino, lo dico con chiarezza ai tanti casertani che l’hanno conosciuto e stimato, ha sempre prevalso, per una inevitabile e naturalissima inerzia sentimentale, su Gigi, il quale, tutto sommato, è diventato questore un po’ suo malgrado, issato dall’evidenza delle cose, per un’inerzia che lui non ha mai forzato, al contrario più di una volta ha rallentato.

Perché, anche nelle vesti di Gino, lui amava il suo lavoro e rispettava moltissimo la giacca, la cravatta e la scrivania di Gigi. Ma amava ancora di più le sue radici, l’azzurro nitido, terso e pulito del cielo che in queste giornate di settembre, riparato dallo scirocco, fa da sfondo al Monte Erbano, alla sua montagna, alla nostra montagna.

Amava la madre Giggina, amava la sorella Maria Rita, che ho sentito più volte addolorata e dignitosa in queste settimane di terribile agonia, conclusasi stamattina in una stanza dell’ospedale Monaldi di Napoli, dove era tornato a ricoverarsi ieri mattina, dopo aver fronteggiato un terribile decadimento della sua salute nei giorni immediatamente successivi al Ferragosto.

Maria Rita, con cui ho condiviso 13 anni di esercizio di una comune formazione scolastica, dalla prima elementare fino alla terza del liceo classico, esprimeva nel dolore, comunque sempre composto, delle sue parole, la piena consapevolezza che di lì a poco avrebbe perso la persona, anzi, ancor di più, l’entità che più amava al mondo e che era, così mi ha detto ancora ultimamente, precipitandomi in un gorgo impetuoso di emozione, il senso stesso della sua vita.

Amava intensamente la figlia Marilisa, sposatasi pochi giorni prima del momento in cui un grave malessere ha rivelato in tutta la loro gravità, i segni della letale malattia.

Amava da decenni chi questa figlia gli aveva donato, sua moglie Maria Lucia, di cui si era innamorato da giovanissimo nei banchi del liceo Luigi Sodo di Cerreto Sannita dove tanti di noi hanno studiato, seguendo le tracce della cultura rigorosa e, allo stesso tempo, empaticamente capace di arrivare, attaccandosi materialmente ai loro tessuti, al cervello e al cuore del preside Nicola Vigliotti, un monsignore che ha sacrificato anche lui, come ha fatto Gino, una porzione cospicua del proprio talento all’amore per la sua terra che ha raccontato, con il rigore dello storico, modalità di espressione culturale con cui donava ai suoi conterranei una grande prova d’amore, in una ricca collana di pubblicazioni, la cui memoria e il cui insegnamento sono tenuti oggi in vita da Alfonso Guarino e dalla straordinaria opera dell’ente culturale che questi presiede e che, da qualche anno, porta proprio il nome di don Nicola Vigliotti, grazie ad una scelta che inorgoglisce me, che di lui sono stato e, tutto sommato, sono ancora il nipote, e la mia famiglia.

Gigi  attrezzato culturalmente per arrivare in cima ad ogni tipo di carriera, poteva essere prefetto, ministro, capo della Polizia. Bastava ascoltarlo parlare cinque minuti per aver conferma che l’Italia è un Paese ingiusto e masochista nel momento in cui non chiama a sé grandi intelligenze come quella di Gigi Botte per consegnare loro una grande missione utilizzando, realmente a favore del popolo, cardinali cariche di potestà.

Ma lui non se ne doleva. Sapeva bene che da noi in Italia per fare carriera, soprattutto nella pubblica amministrazione, non era sufficiente essere intelligenti, colti, preparati, ma occorreva entrare nei rodei delle spintarelle reiterate e temporalmente rinnovate.

Una scelta che ti porta, un giorno sì e l’altro, pure a firmare compromessi, tutti rigorosamente al ribasso, perché stretti e vincolati in uno stato di subalternità ai disvalori, in particolare, al disvalore dei disvalori, costituito dall’ignoranza che percorre impetuosa e che pervade il tessuto connettivo dello Stato, rappresentato dalle nostre classi dirigenti, al punto che l’Italia non potrà mai realmente crescere, in maniera strutturale, in quantità,  ma soprattutto in qualità, rispetto a quegli Stati non inquinati dall’ignoranza delle loro classi dirigenti e che investono sui saperi, su gente come Gigi Botte. Sono quelli i paesi che crescono, evolvono, in quanto la cultura diventa non solo uno strumento statico, quand’anche formidabilmente importante, quale promotore di ricchezza, ma una centrale del fare innovativo, della promozione dell’intelligenza, aperta 24 ore su 24. Quella è la vera crescita, è il vero progresso. Sono le persone come Luigi Botte che avrebbero potuto essere utilizzati molto di più da questo paese, su cui invece purtroppo ha signoreggiato e continua, addirittura in maniera ancora più soffocante, a signoreggia l’ignoranza.

Il vero Pil è quello generato da un capitale sociale di eccellenza e non certo quello dei rimbalzi tecnici o di rientro dai redditi disponibili disastrati e semi azzerati dalle crisi finanziarie o dalle pandemie.

Ricordo che quando abbiamo affrontato qualche volta questo discorso, ad arrabbiarmi rro io e no lui, che ritornato da Caserta, dai suoi uffici di capo della Squadra Mobile, poi dell’Anticrimine e di vicequestore vicario, era felice di chiamarsi di nuovo Gino, di coltivare la sua passione per il teatro che lo ha visto instancabile protagonista di tante rappresentazioni delle vite dei santi più cari alla religiosità popolare della nostra comunità, partendo da San Lorenzo Martire per arrivare a San Donato vescovo e martire e a San Sebastiano.

Ho scritto già tanto in questo articolo, ma dieci secondi fa ero convinto di aver scritto solo poche righe. E’ l’effetto tipico avvertito da chi si immerge nella memoria scandita da un orologio differente rispetto a quello vertiginosamente attivo, trafelato, del nostro presente. Dunque, ritieni di aver scritto poche cose, lo zero virgola di quei racconti che vorresti fare per dare onore ad una vita volata via a soli 62 anni, senza che lui, Gino potesse godersi, almeno un giorno, di una pensione mai così meritata.

Aver scritto già tanto e percepire altro è l’effetto tipico avvertito da chi, come me, si è goduto sempre Gino, mantenendosi a debita distanza da Gigi, in modo da non creare in lui e nelle alte funzioni svolte, l’imbarazzo di un uso improprio del rapporto fraterno e praticamente familiare che ci accomunava quando lui dismetteva i panni di Gigi Botte, di colui che negli ultimi anni si è fatto apprezzare anche da questore di Crotone e da questore di Avellino, per indossare quelli di Gino Botte, quelli della sua gente che oggi lo piange alla maniera con cui si piange un ragazzo di “mez a chiazza“, che, credetemi, è un modo speciale di piangere, perché consegna alla memoria e ad una sua fine, che se non è biologica è sicuramente emotiva, una porzione delle esistenze di coloro che Gino hanno amato e apprezzato.

E che oggi lo piangono ben conoscendo, pur nel contesto di vite trascorse altrove in condizioni di relazione sociale profondamente differenti da quelle che si vivono in quello che il grande musicista e paroliere laurentino Guido Lombardino definì “paesino”, l’ancestralità dell’ethnos, vero filo conduttore della vita e di tutte le scelte operate da Gino Botte.

E’ un pianto particolare, solo particolare. Né più grande, né più piccolo di quello di chi oggi piange Gigi Botte, ricordandone le sue capacità mai ostentate e sempre moderate dall’umiltà e dal profilo basso, che questo grande servitore dello Stato lascia in eredità a tutti i suoi colleghi, a tutti i poliziotti d’Italia e della provincia di Caserta.