LA NOTA. Il tenente dei Ros, cognato di Nicola e Domenico Pagano, indagato. Per noi è San Francesco, ma…

7 Aprile 2019 - 13:56

TRENTOLA DUCENTA (gianluigi guarino) – Premessa. Credeteci, non rituale e né retorica, ma che parte dal rispetto sacrale che questo giornale e chi lo dirige ha, nell’eterna lotta tra guardie e ladri, per la prima di queste due categorie, alle cui sorti, alla cui attività. Sempre il sottoscritto partecipa, a volte, anche cedendo alla debolezza di emozionarsi troppo e di riconoscere ragioni a prescindere che per un giornalista non è mai una roba positiva.

Per cui, questa premessa prendetela seriamente: il tenente del Reparto operativo speciale, cioè dei Ros dei carabinieri, Vittorio Palmieri, è (non lo stiamo prendendo in giro) la riproposizione, nel ventesimo e ventunesimo secolo, di San Francesco d’Assisi.

Fermi, non partite in quarta: quel poco o quel molto che abbiamo studiato sulla filosofia antica ci ha insegnato che, a volte, nell’ambito di un ragionamento, un punto di partenza apparentemente eccessivo, paradossale, se non addirittura caricaturale, serve a marcare il territorio di una costruzione logica che non deve essere inficiata, inquinata, da alcun pregiudizio.

Perché se qui ci mettessimo a scrivere rapidamente, sciuè sciuè, come la situazione pur consentirebbe e forse pur meriterebbe, che Vittorio Palmieri ha indagato in grandi inchieste della Dda, soprattutto in due fondamentali, cioè Medea e Jambo, in cui sono stati implicati e indagati anche

suoi stretti congiunti, questo articolo già finirebbe qui e non avrebbe nulla di apodittico e nulla di vergognarsi acne se finirebbe per allungare ombre, tutto sommato immeritate, su indagini che invece abbiamo potuto apprezzare nella lettura approfondita delle circa 1700 pagine contenute nelle due ordinanze. Un lavoro validissimo, lungo e serio che ha impegnato i nomi più importanti della magistratura inquirente antimafia, a partire da Catello Maresca, per arrivare a Maurizio Giordano.

Potremmo essere sbrigativi e dire forte e chiaro al tenente Palmieri che ha sbagliato a non autoescludersi da questa indagine e che nel momento in cui non l’ha fatto, ha provocato un danno d’immagine alla gloriosissima Arma a cui appartiene.

Però vogliamo ragionare come piace a noi, con un grande punto interrogativo, e non con un punto esclamativo, costantemente incombente sulla nostra testa, dando per certo, fino ad una prova contraria, che ancora non c’è, visto che Palmieri è semplicemente indagato e non è certo stato condannato, neppure in primo grado, che lui sia un pio e non solo un integerrimo rappresentante delle forze dell’ordine. Intelligente e capace al punto da essere utilizzato nel ruolo di detective, come poliziotto giudiziario.

Ma un pio serio che non sia un fondamentalista come gli inauisitori del Medio Evo o come gli attuali estremisti islamici, si pone questioni di coscienza. Con questa, dialoga costantemente e mai si autoassolve. Tutt’altro. Sa di esser nato peccatore, per quella faccenda ben conosciuta della Genesi e percorre il cammino della redenzione attraverso azioni che vanno al di là del normale esercizio di una vita vissuta correttamente e in grazia di Dio.

Il ruolo di grande investigatore su fatti di camorra, unito alla caratterizzazione di pio, esplica la necessità, dunque, di dar qualcosa in più alla missione che diventa di vita e di lavoro, organizzati e combinati come un tutt’uno.

E allora non è, glielo diciamo con rispetto tenente, che la mattina uno si alza nella propria abitazione di Trentola Ducenta, dove lei vive con sua moglie (manco a dirlo) in via Pagano, e dice a se stesso che siccome lei è persona onesta, posso tranquillamente permettersi di indagare per fatti criminali che coinvolgono a vario titolo anche i fratelli di sua moglie, cioè Nicola Pagano, ex sindaco di Trentola e imputato nel processo Jambo, e Domenico Pagano, imprenditore onnipresente, citato in decina di atti giudiziari come uno dei più attivi nelle sue mega lottizzazioni e nei suoi acquisti prestigio, come quello del palazzo di Piazza Vanvitelli a Caserta dove, una volta, era aperto lo storico ristorante “La Leccese”, al servizio degli interessi del boss Michele Zagaria.

Non basta, perché in caso contrario ci si autoassolve e non si è dunque pii per davvero, alzarsi dal letto e dire a se stessi che, siccome io sono onesto, non ho nessuna difficoltà a trovar prove, nel corso di indagini che durano anni, contro persone che abitano a 100 metri da casa mia, con cui pranzo e ceno nelle feste comandate, all’ombra del caldo desco familiare e con le quali, nel corso di tutti quanti gli anni appena citati, io devo neutralizzare, cloroformizzare ogni emozione, ogni pulsione, ogni situazione di tipo familiare, mantenendole distinti e distanti dal merito di quelle indagini di cui non potrà parlare neppure a mia moglie dentro al giusto talamo nuziale.

Non basta perché quel dare di più, quell’andare al di là, che è patrimonio della declinazione continua e quotidiana del rapporto tra un pio e la propria coscienza, consiste appunto nel rimanere vigili di fronte a quell’attitudine al peccato che da Adamo ed Eva in poi, eccetera eccetera…

Per cui, noi non liquidiamo l’imbarazzante questione di Palmieri a cui, durante il Processo Medea, l’avvocato di Pino Fontana pose la domanda, riscontrata da un sì affermativo e imbarazzato, sull’esistenza di rapporti familiari tra lui e i fratelli Pagano; non la liquidiamo, adottando una logica sbrigativa che, ripetiamo, pur potrebbe essere applicata al caso. Cerchiamo invece di andare oltre, di volare più alti e di esporre la questione collocandola dentro a una riflessione sulla morale umana, da cui discende e si distilla etica nel momento in cui si rappresenta un’istituzione tanto importante come l’Arma dei carabinieri.

Questo è l’articolo apripista. Nei prossimi giorni ragioneremo, infatti, su altri documenti che abbiamo ottenuto dopo esser venuti a conoscenza dell’iscrizione nel registro degli indagati del maresciallo. Partiremo sempre, come oggi, indossando la veste dei suoi avvocati difensori. Difensori, però, di una presunzione d’innocenza che Palmieri, tra le cose non ancora chiarissime verificatesi durante l’indagine Jambo, avrà il pieno diritto di rivendicare, urlandola con forza. Una difesa, la nostra, che però, adoperando gli stessi strumenti di analisi e di riflessioni scritti oggi in questo articolo, non potrà superare la soglia di quello che rappresenta una ragione comprensibile, seria, al di là della quale, ci potrà essere solo un atto di autocoscienza del tenente Palmieri, che non potrà, almeno ai nostri occhi, non riconoscere di aver compiuto un grandissimo errore per il quale si è pronti a pagare il fio e che noi, che proviamo ad essere, partendo dalla coscienza di essere a nostra volta peccatori, uomini e donne di buona volontà, siamo pronti, laicamente e cristianamente, a perdonare.