La Domenica di Don Galeone. “Svegliamoci dal sonno collettivo dell’immanentismo culturale”
27 Novembre 2022 - 00:18
Viviamo nella “caverna” di un sonno collettivo! Il pericolo per i cristiani è quello di vendere i valori trascendenti del Vangelo, come se fossero moneta fuori corso, e così anch’essi entrano nel grande sonno collettivo dell’immanentismo culturale.
27 novembre 2022 ✶ Prima Domenica di Avvento (A)
È tempo di svegliarci dal sonno!
Prima lettura: Il Signore unisce i popoli nella pace del suo Regno (Is 2,1). Seconda lettura: La nostra salvezza è vicina (Rm 13,11). Terza lettura: Vegliate, per essere pronti al suo arrivo (Mt 24,37).
Prima lettura (Is 2,1) Almeno una volta l’anno gli israeliti dovevano recarsi al Tempio di Gerusalemme per partecipare alle feste, offrire sacrifici e sciogliere voti. Isaia – il profeta nato e cresciuto nell’ambiente aristocratico e colto della capitale – ha osservato ogni giorno gruppi di pellegrini salire al monte del Signore “in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa” (Sal 42,5). Uno spettacolo commovente che ha suscitato nel suo animo sensibile i sogni, le attese e le speranze del suo popolo.
I tempi sono drammatici per il piccolo regno di Giuda aggredito da una coalizione di popoli che lo vogliono coinvolgere in una guerra temeraria contro l’Assiria (guerra siro-efraimita, 732 a.C.). L’esercito nemico si avvicina e “«il cuore del re Acaz e il cuore del suo popolo cominciarono ad agitarsi, come si agitano i rami del bosco per il vento” (Is 7,2). Tutti sono sbigottiti, solo Isaia mantiene la calma e invita alla fiducia in Dio: Gerusalemme non sarà conquistata – assicura – poi, come rapito in estasi e con lo sguardo fisso verso un futuro lontano, pronuncia il suo oracolo descritto con immagini suggestive: gli strumenti di morte – le spade e le lance – sono trasformati in mezzi di produzione, in vomeri e in falci. I popoli distruggono le armi e pongono fine alle guerre. È l’auspicio del disarmo universale.
Messaggi simili sono già stati pronunciati. Sono innumerevoli le iscrizioni ritrovate su stele che celebrano le imprese gloriose dei faraoni: annunciano tutti la pace; l’ascesa al trono del nuovo re era sempre salutata come l’inizio dell’età dell’oro. Un canto su Ramses IV, in un linguaggio quasi messianico, proclama: “Coloro che avevano fame sono stati saziati e sono allegri, coloro che erano ignudi sono vestiti di lino fine, coloro che erano in prigione sono stati liberati, coloro che litigavano in questo paese, si sono rappacificati”. Eppure, proprio nel giorno in cui si autoproclamava pacificatore del mondo, il faraone scagliava ritualmente una freccia verso ognuno dei quattro punti cardinali: gesto con cui intendeva terrorizzare chiunque avesse in mente di attaccare il suo paese.
I cristiani hanno visto realizzarsi questa profezia in Gesù, ma i giudei hanno smentito questa interpretazione. Dicevano: Gesù di Nazaret non può essere il messia, perché il mondo nuovo non è ancora apparso. Non continuano forse gli odi, le violenze, le guerre? L’obiezione è seria, ma nasce da un malinteso. Il regno di Dio, la pace universale non si instaura miracolosamente, senza la collaborazione da parte dell’uomo e si sviluppa lentamente, come il piccolo seme che impiega anni per divenire un grande albero. “Gli altri uomini continuano a impugnare la spada, ma noi siamo un popolo che si rifiuta di imparare l’arte della guerra; attraverso Gesù siamo diventati i figli della pace” (Origene, Contra Celsum, V, 33).
Vangelo (Mt 24,27) Il linguaggio impiegato in questo brano evangelico può dar luogo a interpretazioni stravaganti sulla fine del mondo e sui castighi di Dio. Queste interpretazioni hanno origine dalla mancata comprensione del genere letterario «apocalittico», che era molto usato al tempo di Gesù, ma che oggi è poco compreso. Un principio va sempre tenuto presente: il Vangelo è, per sua natura, buona notizia, annuncio di gioia e speranza. Chi se ne serve per incutere spavento e per creare angosce, si è allontanato dal vero significato del testo. Nel brano di oggi – è vero – i toni sono minacciosi: cataclismi, distruzioni, pericoli di morte. Il linguaggio è volutamente duro e incisivo, le immagini sono quelle del giudizio punitivo, ma Gesù vuole solo mettere in guardia chi lo ascolta. Si tratta, sempre, non di castighi vendicativi ed eterni, ma da rimproveri pedagogici e temporanei.
Il sonno è un pericolo per la fede! Dopo avere letto questo Vangelo di cataclismi, il minimo che dovremmo provare è una “santa inquietudine”. Gesù esorta alla vigilanza, non in vista di un vago pericolo, ma in vista della fine dei tempi, del giudizio finale, l’evento più drammatico che possiamo immaginare. Le sue parole ci trasmettono un brivido, come quello che coglie certi animali alla vigilia di un terremoto. Sentiamo che non si tratta di una fantasia poetica o di una fiction mediatica, ma di una realtà vera, anche se futura. Ci sono molte forme di sonno. La vita, la salute, il lavoro, gli interessi ci assediano, ci invadono, ci occupano. E in questo modo entriamo nel grande sonno della ragione e della fede! Il sonno è fabulazione e genera mostri. Durante il sonno, la fantasia si sgancia dalla ragione, e finge mondi immaginari; nella vita quotidiana spesso siamo catturati dal gioco di queste fabulazioni separate dalla ragione e dalla fede. Viviamo nella “caverna” di un sonno collettivo! Il pericolo per i cristiani è quello di vendere i valori trascendenti del Vangelo, come se fossero moneta fuori corso, e così anch’essi entrano nel grande sonno collettivo dell’immanentismo culturale. Ma la verità del Vangelo non si misura dalla sua incidenza sulla storia, dalle sue realizzazioni quantitative, dalla sua efficacia pubblicitaria. Crediamo di essere cristiani moderni, e invece siamo entrati nel grande sonno collettivo; abbiamo diluito le precise e decise parole del Signore.
Attendere, cioè: tendere verso… Gesù ci consegna parole inquietanti, ma il loro bagliore apocalittico emana anche fiducia. Il giudice che viene è anche l’Amico liberatore, il Signore atteso, l’Emanuele crocifisso e risorto. Dio non è come lo immagina la nostra fabulazione intellettuale, filosofica o teologica che sia. Questo senso di fragilità globale è una delle tentazioni cui saremo sempre più esposti. Le nuove tentazioni non saranno quelle interiori tra corpo e anima, ma quelle bibliche tra speranza e disperazione. Le nostre epopee finiscono nell’inceneritore della storia. Questa precarietà metafisica può essere salutare, e ci suggerisce di non abusare di Dio. Il vero Dio ama il silenzio. Perciò non parleremo di Dio, ma a Dio, come ad un amico di viaggio, a un compagno di gioie e di dolore. Il credente è uno che non ha, non sa, non possiede! Il credente non possiede, ma “attende”, cioè “tende verso” una salvezza che viene da Dio.
Dio non può essere mai posseduto, ma va sempre cercato! Questa ricerca sapienziale non comporta disimpegno né scetticismo. Questa fragilità congenita ci impedisce anche di affidarci ciecamente alle “magnifiche sorti e progressive” della ragione strumentale. Molti credono che il cervello elettronico nasconda nei suoi lobi meccanici, nei suoi cristalli liquidi, la soluzione a tutti i problemi esistenziali; che una scheda perforata nel personal computer offre sempre la risposta giusta; a molti sembra una conquista questo mondo ordinato e sterilizzato, dalla culla all’eutanasia. Ma la terra “interamente illuminata dalla ragione, brilla all’insegna di trionfale sciagura”. Non è la Città di Dio che stiamo costruendo, ma la Torre di Babele! BUONA VITA!