CAMORRA, TALPE E FUGHE DI NOTIZIE. Quello che poteva essere e non è stato nell’inchiesta sugli appalti RFI. Il racconto dei testimoni sugli uffici extra-lusso di Nicola Schiavone Monaciello

18 Luglio 2022 - 21:34

Torniamo sull’argomento a nostro avviso clamoroso già trattato nell’articolo di ieri, domenica 17 luglio. Lo facciamo nel momento in cui riportiamo e sintetizziamo le informazioni fornite, quali persone informate sui fatti, dalla storica impiegata Sabina Visone e dalla sua impiegata Stefania Caserta

CASAL DI PRINCIPE (g.g.) – Non è affatto detto, se a gennaio fosse capitato un altro fatto, che il 3 aprile 2019, i carabinieri del nucleo investigativo di Caserta, su ordine dei magistrati inquirenti della Dda di Napoli, si sarebbero presentati all’alba nelle case e nelle sedi societarie collegate all’attività dell’ormai arcinoto Nicola Schiavone, 68enne di Casal di Principe, trapiantato a Roma e a Napoli, ma soprattutto per anni e anni pupillo del suo parente Francesco Sandokan Schiavone, capo del clan dei Casalesi. 

Non è detto che l’avrebbero fatte anche per le case e per gli uffici di cui usufruiva il fratello del Monaciello, cioè Vincenzo Schiavone, detto O’Trick, appartenuto nello stesso passato all’orbita di Walter Scarface Schiavone, fratello di Sandokan e co-fondatore del clan dei Casalesi. Stesso discorso vale per le perquisizioni a cui furono sottoposti molti degli altri indagati di questa inchiesta, partendo dai vari Carmelo Caldieri, Luca Caporaso, Vincenzo Bove. I primi due principali teste di legno di Vincenzo Schiavone, l’ultimo fedele e fidatissimo autista al suo servizio.

Magari ci sbagliamo, ma abbiamo la sensazione che gli inquirenti, spiazzati e defraudati della potenzialità di questa inchiesta, dall’incedibile fuga di notizia, dalla talpa o dalle talpe che consentirono a Nicola Schiavone di conoscere, sin dal mese di gennaio 2019, addirittura il numero del registro generale delle notizie di reato in cui il fascicolo era stato inserito, furono in pratica costretti a prendere l’iniziativa, in modo da cristallizzare qualche prova o qualche indizio di colpevolezza.

Tra il mese di gennaio e il 3 aprile, Nicola Schiavone e gli altri indagati ebbero tutto il tempo di prepararsi e preparare anche le persone che presumibilmente sarebbero state anche indagate. Se a gennaio qualche rappresentante infedele dello Stato non avesse fatto uscire quei documenti riservatissimi, la Dda e i carabinieri avrebbero potuto continuare a raccogliere intercettazioni genuine, facendo maturare anche fatti in grado di diventare elementi costitutivi di solidi e gravi indizi di colpevolezza.

Noi non sappiamo se la procura della Repubblica di Napoli in quel gennaio abbia aperto un’indagine su questa clamorosa fuga di notizie. Cercheremo di domandare in giro perché riteniamo che sia importante sapere se la procura abbia considerato quel fatto come un evento negativo, infausto, che frapponeva una determinante difficoltà all’attività volta all’accertamento della verità.

Vedremo.

E in attesa di vedere, citiamo un altro passo dell’ordinanza, questa volta comprendente le dichiarazioni delle due impiegate, Stefania Caserta e Sabina Visone, in servizio nella TEC srl, cioè la società in cui Nicola Schiavone risultava dipendente, con la massima carica dirigenziale di direttore generale.

Quello che leggerete nello stralcio che pubblichiamo in calce, racconta del contributo prezioso fornito da Stefania Caserta alla messa a punto dell’accusa del reato di intestazione fittizia. L’impiegata dichiara con franchezza che il vero punto di riferimento della TEC era proprio Nicola Schiavone, il quale tutto era, fuorché un dipendente, seppur con incarichi da dirigente. Sopra di lui non c’è stato mai nessuno e ciò è anche dimostrato dalla consistenza fisica degli uffici attivati in quella sede. Quello di Nicola Schiavone era grande, luminoso e arredato in maniera pregiatissima, senza trascurare il minimo dettaglio e con l’uso di complementi di arredi extra-lusso, marcati Pineider.

La sessa qualità apparteneva all’ufficio di Vincenzo Schiavone. Quelli in cui stavano i vari Caldieri, Caporaso eccetera, erano piccole stanze spoglie, assolutamente anonime, che i carabinieri non ritennero neanche di dover inventariare.

Per quanto riguarda le assunzioni dei parenti, la teste Stefania Caserta conferma sia quella di Tiziana Baldi, sia quella di Rosaria Schiavone, moglie e figlia di Vincenzo Schiavone, ma anche quella di Teresa Maisto, moglie di Nicola Schiavone.

E mentre Baldi e figlia si facevano vedere fugacemente (“massimo due volte alla settimana per poche ore“), intascando lo stipendio pieno, in base al loro contratto – full-time o part-time – e tempo indeterminato, Stefania Caserta, Maisto, non l’aveva vista neppure in cartolina. Mai entrata nella sede della società di cui era dipendente, ma stipendi regolarmente pagati fino al 2018, anno in cui la moglie di Nicola Schiavone si disimpegnò, licenziandosi.

La testimone conferma che il citato Nicola Schiavone aveva a disposizione tutte le carte di credito e ogni possibilità di spesa.

Per quanto riguarda, invece, Sabina Visone, il suo contributo, seppur considerato utile, non è valutato completamente genuino. D’altronde, la Visone era un’impiegata della prima ora, che da anni e anni lavorava con Nicola Schiavone ed era stata lei a sottoporre Caserta al colloquio decisivo per l’assunzione.

Per cui, questi due mesi e mezzo di distanza dalla fuga di notizie e la perquisizione, hanno potuto rappresentare un tempo sufficiente per preparare delle versioni non veritiere o comunque omissive. La Visone dice, ad esempio, di non conoscere la mansione esercitata da Nicola Schiavone. Il che è impossibile, visto che le buste paga le faceva lei. Per il resto ci sono altre dichiarazioni sovrapponibili validamente a quelle di Stefania Caserta.

La banca di riferimento della TEC srl, come del Consorzio GSC, era la filiale napoletana della Banca Popolare di Reggio Emilia, poi Banca dell’Emilia Romagna, la cui sede si trovava a Fuorigrotta, in viale Augusto. Da quel conto vennero fuori le condizioni affinché Nicola Schiavone potesse utilizzare una carta di credito certo non collegata ai circuiti medi-ordinari Visa o Mastercard, ma a quello prestigiosissimo, che di certo non consegna la sua storica carta verde al primo che passa, parliamo di American Express.

Insomma, il quadro che viene fuori è quello di un controllo ad ampio spettro esercitato da Nicola Schiavone. Utilizza i suoi dipendenti, come succede proprio alla Caserta, anche dentro ad altre società, a partire dalla ITEP, su cui ci siamo soffermati a lungo nei giorni scorsi, sino alla società di comunicazione BCS con sede a Napoli, in piazza dei Martiri, in cui Schiavone esercita in maniera un  po’ anomala le funzioni di socio unico e amministratore. Stefania Caserta metteva il suo lavoro a disposizione anche di questa società e non faceva certo domande. Considerava Nicola Schiavone il suo datore di in TEC srl, esattamente come tale l’aveva considerato nella ITEP. E siccome la BCS era una società di Nicola Schiavone, l’impiegata Caserta riteneva di prestar servizio nella stessa azienda, a dimostrazione che il dominus era sempre uno ed uno solo.