MARCIANISE. Ci risiamo con la strumentalizzazione del dolore: stavolta Velardi incrocia una mamma e il suo bambino e sentenzia: “Icona della paura e della mancata integrazione”

5 Settembre 2020 - 13:18

Ma un cittadino lo smentisce: “Sono perfettamente integrati”. Come avete notato, stiamo guardando e poco intervenendo in questa campagna elettorale. Vorremmo continuare a farlo anche nelle ultime due settimane. Ma se leggiamo che Velardi ha visto negli occhi di un bimbo uno sguardo più potente di un fulmine dobbiamo necessariamente esprimere il nostro punto di vista

 

 

 

MARCIANISE (Gianluigi Guarino) – Da Adamo ed Eva in poi, la sofferenza è stata sempre presente nella vita di ogni componente del genere umano. Chi più, chi meno, l’attraversa.

Cambiano le modalità, la continuità, l’estensione temporale, ma sul fatto che ogni vita sarà sicuramente connotata anche da momenti di sofferenza non esistono dubbi. Non li hanno i credenti, che ne conoscono l’origine, non li hanno i non credenti, i deterministi, che a differenza dei primi, però, la identificano più come effetto biologico che come causa di un cammino di redenzione.

C’è la sofferenza che una persone vive a causa di malanni propri, che percorrono la propria pelle, e poi c’è la sofferenza indotta, quella causata dalla sofferenza altrui.

Ognuno ci fa i conti ogni giorno. Ma anche in questo caso, non è per tutti la stessa cosa. Non tutti la vivono allo stesso modo.

Di solito la sofferenza, almeno per quanto riguarda il tipo indotto, rappresenta una manifestazione e finanche un dono di generosità e altruismo. Non hai bisogno di dichiararla, perché fa parte di te e tutto il suo percorso si esaurisce dentro di te.

A pensarci bene c’è un modo infallibile per comprendere la cifra di autentico altruismo posseduta da una persona: la donazione di sé, materiale ma anche semplicemente emotiva e spirituale, lungo un solo filo di collegamento che conduce direttamente a chi sta soffrendo.

In poche parole, se un prossimo tuo soffre e tu con lui, non potrai mai sviluppare una narrazione, un racconto di quello che vedi. La persona che soffre non ha la forza, il più delle volte, di scegliersi gli interlocutori, vivendo una condizione di minorità, di tensione concentrata sullo stato del proprio malessere.

Ecco perché bisogna prestare particolare cura affinché la manifestazione di solidarietà non apra spazi e varchi a volte pericolosi: tu soffri, io partecipo alla tua sofferenza, ti propongo il mio abbraccio e la storia finisce lì, non può andare oltre, altrimenti c’è qualcosa che non torna nell’atteggiamento solidale.

Questo ragionamento, formato da un numero di parole forse eccessivo, ci serve come misura preventiva per esprimere ancora una volta forti perplessità sul modo in cui l’ex sindaco Velardi si atteggia rispetto al tema universale della sofferenza.

Il ragionamento di premessa è, infatti, una garanzia e una porta che noi lasciamo aperta finanche a Velardi perché per una volta accetti di confrontarsi sui contenuti di una nostra posizione, dimostrando che è sbagliata, che non ha fondamenti culturali validi ed efficaci.

Ovviamente non lo farà, ma noi abbiamo il dovere di ammorbare un po’ il nostro lettore per scongiurare l’eventuale uso di un’arma della comodità, e cioè quella consistente nella definizione di tutto ciò che abbiamo scritto ed espresso nei confronti del Velardi in questi anni come banale espressione di un astio personale. Che non è mai esistito e mai potrà esistere, visto che mai e poi mai si è visto un astio così lungamente e complicatamente manifestato con argomentazioni complicate, dure ma sempre dignitosamente legate a un ragionamento fallace e fallibile finché si vuole, ma mai privo di una base culturale riconoscibile.

Dopo Giuliano Margherita e la morbosa narrazione dei momenti più intimi e drammatici, più intensamente vissuti da una mamma e da un papà, del trapianto fortunatamente riuscito della piccola Ilaria; dopo che addirittura l’amministrazione dell’ospedale Monaldi, solo però a seguito delle rimostranze della famiglia, lo allontanò dalle corsie del dolore; dopo il racconto della malattia di Giuseppe Moriello; oggi il Velardi, naturalmente in piena campagna elettorale, tira fuori o almeno prova a sguainare l’arma della solidarietà commiserevole.

Imbattendosi nella scena di una mamma dello Sri Lanka che tiene in braccio il suo bambino, ritiene di aver individuato la paura, dall’alto della sua conoscenza analitica e, a questo punto, scientifica, della fisiognomica, nello sguardo di quella madre e di quell’infante – che definisce con ardita e piuttosto sgangherata similitudine, più potente di un fulmine, visto che se un bimbo o anche un adulto è debole e indifeso non scaglia dardi manco dalla punta del monte Olimpo contro i titani.

Attenzione, Velardi collega la scena della mamma e del figlio al problema universale, dunque anche locale, della mancata integrazione degli immigrati.

Vedete, anche stavolta, forse addirittura più di altre volte, si comprende quanto assente sia, nello stato d’animo dell’ex sindaco, la conoscenza reale della sofferenza.

Stavolta, più delle altre, uno sguardo, un’occhiata, non rappresenta solo una spia, uno stimolo per avviare il percorso di conoscenza di un fatto. No, magari quel bambino stava scazzato per i fatti suoi, aveva il mal di pancia, ma per Velardi quella scena diventa come la famosa fotografia di Nick Ut della bimba vietnamita che vaga piangente dopo un bombardamento americano e che rappresentò l’icona del movimento pacifista.

La speranza è che stavolta i marcianisani non cancellino ciò che hanno visto, sentito e letto in questi anni, valutando con attenzione il modo con cui Velardi utilizza la sofferenza altrui.

Perché un indizio è un indizio, ma due indizi costituiscono una prova. Figuriamoci dieci indizi, dieci situazioni in cui una sofferenza reale o addirittura arbitrariamente costruita, hanno rappresentato un argomento di stabile relazione tra un sindaco, un candidato sindaco e la struttura fondamentale della sua comunicazione.

Giusto per dire, sotto a questo post c’è la risposta di una persona che smentisce quanto raccontato da Velardi: “Peccato che il Sig. Antonello Velardi abbia scelto appositamente come sfondo, l’unica parete su cui l’intonaco non ha mai tenuto in quanto costruito con pietre di tufo nero, proprio per fare questo post strappalacrime, con una ragazza che con la sua famiglia è perfettamente integrata alla città e per niente impaurita, anzi! Vi invito a visitare quel cortile antico di via Campania, ‘nda via pigna, magari vi fate una cultura sulla tipologia di corte e conoscere professionisti che vi abitano”.

Piccola chiosa: se Velardi fosse veramente uomo di informazione, saprebbe dove trovare le statistiche dell’integrazione e scoprirebbe che gli immigrati provenienti dal sud-est asiatico, soprattutto filippini e cingalesi, sono di gran lunga tra i più integrati.

Beh, se i marcianisani questo qui lo votano ancora per fargli fare il sindaco, altro che homo, qui saremmo di fronte a un populus faber della sua sventura.