MAXIPROCESSO AGLI AGENTI DEL CARCERE DI S.MARIA C.V. Nell’aula bunker parla la figlia del detenuto disabile picchiato: “Ha sbagliato nella sua vita, ma merita giustizia”
7 Novembre 2022 - 19:25
SANTA MARIA CAPUA VETERE – “La vicenda di mio padre la conoscono tutti, i video sono evidenti, era su una sedia a rotelle. Mio padre ha sbagliato nella sua vita, ma non avevano nessun diritto di fargli quello che hanno fatto. Lui rimase molto sconvolto: ha subito uno stress post traumatico per gli abusi in carcere. E ora da questo processo ci aspettiamo giustizia per lui e tutti i detenuti picchiati selvaggiamente”.
A parlare è Antonella Cacace, figlia di Vincenzo, il detenuto sulla sedia a rotelle malmenato dagli agenti penitenziari al carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020; le manganellate furono riprese dai video interni del carcere, usati poi dalla Procura per le indagini. Cacace è poi deceduto il 18 giugno scorso.
La figlia Antonella, con la madre e il fratello, ha proseguito la battaglia giudiziaria iniziata dal papà con la costituzione di parte civile nell’udienza preliminare, e oggi i tre si sono presentati all’aula bunker del carcere per assistere alla prima udienza del maxi-processo che vede imputati 105 tra poliziotti penitenziari, funzionari medici e dell’Amministrazione Penitenziaria.
La ragazza, 32 anni e tre figli, non trattiene l’emozione quando ripercorre gli ultimi anni di vita del padre, contrassegnati dallo choc profondo per le violenze in carcere.
Eppure Vincenzo inizialmente non ne aveva parlato con i familiari. “Fin quando è stato in cella – ricorda Antonella – non ci ha mai detto cos’era accaduto. Dopo siamo venuti a sapere che delle rivolte in carcere, e quando è stato scarcerato perché la sua salute era peggiorata, anche degli abusi. Eravamo arrabbiati. Nonostante fosse sulla sedia a rotelle, papà ha combattuto tanto, facendo denunce, parlando con i giornalisti degli abusi subiti”. Antonella ha assistito il papà, una volta uscito di carcere e fino alla morte. “Non riusciva più a dormire; si svegliava spesso e diceva ‘appuntato accendimi la luce, fammi questo, fammi quell’altro’; quelle botte gli erano rimaste impresse”.