L’ALTRO GIORNO AL PROCESSO. Nicola Schiavone: “Vi racconto come comandavo e com’erano divise le zone degli appalti pubblici. Erano gli imprenditori a corrompere politici e dirigenti comunali”

13 Luglio 2024 - 19:15

Il collaboratore di giustizia è comparso 3 giorni fa nel corso del processo che vede alla sbarra a Santa Maria Capua Vetere Bernardo Apicella e diversi altri imputati

CASAL DI PRINCIPE (Elio Zanni) – Con una “pennellata” dopo l’altra , provando a costruire :’immagine di sé di un pentito redento, folgorato sulla via di Damasco, Nicola Schiavone, studi universitari alle spalle iniziati e subito lasciati «per intervenire nel clan in un momento di turbolenza interna» ha ribadito tre giorni fa, al cospetto dei giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere durante il processo sulla camorra degli appalti pubblici, primo imputato Bernardo Apicella, di essere stato «il reggente”, con Nicola Panaro del clan dei Casalesi.

Questo dire è ribadire ogni volta il concetto, renderà, evidentemente ancor più griffate le sue vesti di collaboratore. Soprattutto, quando dice. volendo accreditare l’immagine di un capace pianificatore criminale: «Compresi che la strada giusta era evolversi e dare l’esempio anche agli altri dell’organizzazione mafiosa». E siccome il capo in testa, anzi «il reggente» era lui e solo lui, significa che nel momento in cui avrebbe deciso, come ha poi effettivamente deciso, di diventare un collaboratore di giustizia, sarebbe stato sempre lui. Nicola Schiavone, figlio del capo dei capi Francesco Schiavone Sandokan, a possedere le chiavi giuste per aprire i il vaso di Pandora. Uno scrigno dal quale saltano fuori le sorgenti del flusso di denaro che ha alimentato e, forse, alimenta ancora la macchina malavitosa, svelando le fonti di finanziamento della cosca: «la gestione dei lavori pubblici e privati, poi il calcestruzzo e persino il gioco d’azzardo». Come? Con una struttura piramidale con una rigida divisione territoriale e una gestione centralizzata delle finanze. Una gestione di cassa comune, prima cumulativa e poi «con la scarcerazione di Francesco Schiavone (primi anni Novanta) a percentuale: ognuno incassava quello che voleva, prelevando anche il 10 per cento dagli imprenditori «ma dovevamo – ha dichiarato Schiavone jr – mettere il 3 per cento in una cassa comune». La catena di Sant’Antonio delle pressioni politiche, degli appalti e dei proventi. Dunque, il clan aveva contatti con gli imprenditori edili e questi direttamente con le amministrazioni comunali nel territorio vastissimo dall’Agro aversano fino all’Alto casertano. Baricentrici nella mappa degli appalti inquinati appaiono, nelle parole del collaboratore, da un lato Casal di Principe e dall’altro «Sparanise e comuni limitrofi». Per cui il territorio risultava così suddiviso: Nicola Schiavone e Nicola Panaro (camorrista arrestato nell’aprile 2010) responsabili di Casal di Principe; Michele

Zagaria (re del cemento in carcere al 41bis all’Aquila) responsabile di Casapesenna; Antonio Iovine (‘o ninno” tradito da un peccato di gola: il famoso roccobabbà), Giuseppe Caterino (“Peppinotto”) e Diana Raffaele (detto “Rafilotto”) responsabili di San Cipriano. Michele Zagaria gestiva San Marcellino, Trentola Ducenta Caserta e altre porzioni della provincia Dunque, durante l’escussione, che suddividere in due o tre puntate, Nicola Schiavone ha configurato la chiave di volta che reggeva tutta l’impalcatura affaristica dei Casalesi targati Zagaria o vicini ad altri boss: l’impalcatura degli imprenditori. E tra quelli a lui più prossimi Nicola Schiavone ha fatto mettere a verbale il racconto delle modalità con cui si sia avvalso d’imprenditori come «Dante Apicella, altro Paolo (pare dica: Cordino), Gennaro Mastrominico e Giacomo Capoluongo». Schiavone, nella sue deposizione, ha delineato un quadro chiaro delle dinamiche corruttive che legavano il clan agli imprenditori e, attraverso questi, alle amministrazioni locali, evidenziando come il sistema degli appalti fosse sistematicamente inquinato.