MARCIANISE. I Letizia sognavano una rivincita di sangue sui “Mazzamerda”: “Mio amatissimo figlio, devono soffrire tutti”

9 Aprile 2019 - 12:21

MARCIANISE – Antonio Letizia è un personaggio interessante.

Conosce l’alfabeto della camorra, quello delle allusioni e delle colorite metafore, conosciute e riconosciute a loro volta solo da chi ha frequentato la stessa scuola.

Insomma, nel leggerlo, capisci che si tratta di uno che ha comandato e comanda ancora.

Ma l’originalità del soggetto risiede nella disarmante, sorprendente, spiazzante ingenuità che lo porta a scegliere lo strumento della lettera da carcere a carcere per impartire ordini, per indirizzare esortazioni, per suggerire percorsi.

“Mio amatissimo figlio”: l’intestazione lascerebbe pensare alla necessità di scaricare su un foglio di carta la mozione degli affetti di un detenuto che nella consapevolezza di essere letto con altrettanto amore, trova una parziale consolazione alle sue sofferenze di recluso.

D’altronde, se uno scrive una lettera dal carcere di massima sicurezza di Parma, dove Antonio Letizia si trovava nell’anno 2014, e la spedisce al carcere di Palermo dove si trovava il figlio putativo Salvatore Letizia, cioè colui che aveva perso il padre e la madre, uccisi nella storica guerra di camorra tra i Mazzacane, comandati da Mimì Belforte, pure lui recluso a Parma a quei tempi (che Antonio Letizia chiama con disprezzo “Mazzamerda”, augurandogli tutte le sventure del mondo) e i Quaqquaroni alleati con la famiglia Letizia, non può non dare per scontato che quella lettera sarà aperta doverosamente dalla censura del carcere e trasmessa, qualora contenesse frasi sospette, all’autorità inquirente, nello specifico alla DDA di Napoli.

E invece Antonio Letizia, forse frastornato dal carcere e assalito dalla fregola di sentirsi ancora un boss regnante, scrive queste lettere come se si trattasse di segretissimi pizzini.

Secondo la magistratura, “questa missiva assume particolare significato in quanto evidenzia l’attualità dell’allarme sociale derivante dalla concreta possibilità che da un momento all’altro il rancore non sopito negli animi dai Letizia possa condurre alla ripresa della faida in occasione della scarcerazione di Letizia Antonio”.

Un assist al bacio per i detective della magistratura, che in questi anni hanno potuto usare questi contenuti per controllare i movimenti della famiglia Letizia, partendo da quelli di Salvatore, destinatario delle lettere del padre putativo, che nell’anno 2015 riconquista la piena libertà dopo la detenzione in Sicilia e dopo un breve periodo trascorso agli arresti domiciliari.

“Mio amatissimo figlio…” e dalla riga successiva Antonio Letizia si mette a fare il Cutolo, il Badalamenti, il Luciano Leggio detto Liggio, fondatore dei corleonesi e padre putativo, mafiosamente parlando dei due suoi allievi più “capaci” Totò Riina e Bernardo Provenzano: “Vedi di aspettarmi che esco e che escono i compagni. Tu devi essere un fantasma intelligente (…) non importa che pensano gli altri, conta quello che vogliamo noi. Devi aver pazienza e sangue freddo”.

E ancora: “Devi essere un figlio di puttana o’ ver (…) Lo dobbiamo far suicidare dal dolore a sto infame e Mimì Mazzamerda. Noi non dimentichiamo nulla e li ricambiamo il doppio (…) tutti in famiglia devono avere il lutto, ogni 5/6 mesi una botta, con calma e intelligenza, devono soffrire come i cani”.

Va detto, però, che le forze dell’ordine, la polizia giudiziaria e i magistrati della Dda hanno avuto sempre la situazione sotto il loro controllo, altrimenti l’affermazione allarmata del Gip sull’attualità del rischio che una guerra di camorra si riapra, affermazione legata alle parole che Antonio Letizia scrive cinque anni fa, avrebbe incrociato una strategia differente, una necessità di intervenire immediatamente con lo strumento della repressione per evitare che a Marcianise il sangue ricominciasse a scorrere come successe negli anni ’90 e nei primi anni del 2000.