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JAMBO, una SCONFITTA dello STATO. Nessun dolo, per carità, ma incapacità, culpa in vigilando degli amministratori giudiziari

15 Luglio 2019 - 11:21

di Gianluigi Guarino

Dal dicembre del 2014, dal giorno in cui fu realizzato una delle più grandi retate di camorra, che svelò l’assoluto controllo dei grandi boss e di Michele Zagaria in particolare, su tutte le attività interne ed esterne al centro commerciale Jambo, sono trascorsi 4 anni e mezzo, quasi mille pagine di ordinanze, decine di migliaia di pagine di verbali processuali, ma ancora oggi, con gli amministratori giudiziari che non a caso noi abbiamo criticato, guadagnandoci naturalmente l’immancabile querela, la camorra chiama e il Jambo risponde.

Nessuno vuol mettere in discussione, e sarà così fino a prova contraria, la buona fede di chi ha amministrato e amministra, in nome e per conto dello Stato, nominato da un tribunale, il Jambo. Questo al di la di certe presenze gregarie, di certe nomine, avvenute all’interno del management, che pure hanno destato, nei mesi scorsi, più di una perplessità, in considerazione di relazioni spericolate che i beneficiari di tali nomine hanno intrattenuto in passato con altri soggetti, stabilmente e ampiamente ancorati al di la della linea di demarcazione che divide, o almeno dovrebbe dividere, l’area della legalità da quella dell’illegalità, e ancor più stabilmente residenti dentro o appena fuori l’articolo 416 bis, che di quest’area rappresenta il fulcro.

Ma ripetiamo, la buona fede degli amministratori giudiziari, al momento, non è in discussione. Va discussa, invece, la sottovalutazione del grado di radicamento del clan dei casalesi all’interno di quella struttura. L’ordinanza del 2014 ha colpito le menti pensanti, le aree decisionali, ma non ha potuto, attraverso un processo che si sarebbe configurato, a quel punto, come mera giustizia sommaria, ripulire il paesaggio interno. Cosa che sarebbe stata possibile solo chiudendo definitivamente il Jambo e lasciando, conseguentemente, per strada anche tante persone che con la camorra non hanno mai avuto a che fare.

Proprio dalla necessità di far coesistere complicatamente lo stato di diritto, che garantisce il lavoro a centinaia di famiglie e l’esigenza di scollegare le tante quinte colonne che il clan dei casalesi può vantare all’interno di quella struttura, è stato nominato un amministratore giudiziario.

E d’altronde tali figure, che per la loro funzione intascano fior di quattrini, attinti dalle tasse pesantissime pagate da tutti noi, proprio questo devono fare. Dunque, i loro collaboratori vanno scelti tra persone totalmente disancorate dal territorio e soprattutto con un’attitudine investigativa che gli consenta di costruire, con discrezione, una banca dati di conoscenza della vita e delle opere, partendo, magari, dall’identità di chi li ha raccomandati, di ognuno dei dipendenti.

Tutto ciò non è accaduto, non, ripetiamo, per cattiveria, in maniera dolosa, ma, a nostro avviso, per incapacità a svolgere, con intransigenza leonina e applicazione letterale, il compito assegnato. Tutto qui.

D’altrone, la culpa in vigilando non l’abbiamo inventata noi ma è conficcata, cari amministratori permalosi e querelatori, nei codici del diritto italiano.

Si tratta di una nostra opinione, da oggi però, saldamente corroborata dagli esiti di questa indagine della dda e della Dia.