CLAN DEI CASALESI. Condanna definitiva a 16 anni per Michele Fontana O’ Sceriff, il braccio destro di Zagaria

30 Luglio 2020 - 16:26

CASAPESENNA – Restano in carcere, senza nessuno sconto di pena, Michele Fontana O’Sceriff, uno degli uomini di fiducia del boss Michele Zagaria, e Paolo Natale, 39enne, appartenente al gruppo di Carlo Bianco, altro membro di spicco del gruppo di Capastorta, entrambi condannati dalla corte di Appello di Napoli rispettivamente a 16 anni e 4 mesi ed a 14 anni di reclusione, per il reato di partecipazione all’associazione per delinquere di stampo camorristico denominata clan dei Casalesi, in particolare all’articolazione interna facente capo al boss Zagaria.

Natale e Fontana, dopo la sentenza di secondo grado del 17 gennaio 2019, hanno presentato ricorso in Cassazione contro la decisione. Nella tesi dei legali, che potete leggere completa nel link alla fine dell’articolo, si è sottolineato l’errore che, secondo i legali, la corte ha compiuto nella lettura delle testimonianze di collaboratori di giustizia come Attilio Pellegrino e Michele Barone. Ad esempio, scrivono gli avvocati difensori che le dichiarazioni di Barone non potevano fare da riscontro a quelle di Pellegrino, riguardanti la partecipazione di Fontana al clan, dato che il primo era stato arrestato nel marzo 2010, vale a dire prima dell’inizio del periodo per il quale è stato riconosciuto colpevole lo stesso Fontana.

Questa specifica doglianza e tutte le altre motivazioni presentate dai legali non sono bastate a modificare la storia di questo processo e, infatti, la

corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi e condannato ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. 

Per Fontana, interessante è sicuramente il passaggio del dispositivo della sentenza in cui i giudici di ultima istanza, avallando al ragionamento compiuto dai colleghi della corte napoletana, sottolineano il fatto che Attilio Pellegrino aveva indicato Fontana come uomo vicino a Michele Zagaria, spiegando di essere stato convocato dallo stesso Fontana subito dopo la sua scarcerazione e che proprio Pellegrino gli aveva pagato lo stipendio in due o tre occasioni, mentre in altre era stato lo stesso Fontana a trattenere come stipendio i proventi delle estorsioni. “Dette circostanze – continuano gli ermellinisi combinano con quelle, evidenziate dall’altro collaboratore di giustizia, Barone, a proposito del ruolo dell’imputato all’interno del clan e della percezione dello stipendio nonché con le dichiarazioni di un ulteriore collaboratore di giustizia, Massimiliano Caterino, del tutto trascurate dai ricorrente.”

LEGGI L’INTERA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE