La Domenica di don Galeone: “Il Dio di Gesù non guarda i meriti delle persone, ma le loro necessità, non le loro virtù, ma i loro bisogni”

22 Ottobre 2022 - 11:45

Un fariseo e un pubblicano a confronto. Non fra di loro e neppure con terze persone ipotetiche, ma ciascuno in rapporto con il Signore.

23 ottobre 2022 ✽ XXX Domenica tempo ordinario (C)

Dio rende giusto chi lo prega con fede

Prima lettura   La preghiera dell’umile penetra le nubi (Sir 35, 12). Seconda lettura   Ora mi resta solo la corona di giustizia (2Tm 4, 6). Terza lettura   Il pubblicano tornò a casa giustificato, a differenza del fariseo! (Lc 18, 9).

La domenica “della preghiera autentica” È stato detto che “una persona vale quanto prega”. Sì, la preghiera è fatta per vivere bene. Gesù con la parabola del fariseo e del pubblicano ci vuole insegnare quanto sia necessario essere assolutamente sinceri con Dio. Presentarci davanti a Dio per quello che siamo, sinceri, cioè “sine cera”, senza mascherine sul viso! Una cosa che Dio non sopporta è quella di crederci migliori degli altri. Davanti a Dio siamo tutti uguali, ma Dio ascolta sempre volentieri la preghiera dei poveri.

Vangelo (Lc 18, 9-14) “Due uomini salirono al tempio per pregare”   L’evangelista

Luca non scrive un Tractatus de oratione, non presenta idee sulla preghiera ma due persone concrete in preghiera, in opposizione, secondo la tecnica orientale del contrasto. Il Vangelo non descrive gli uomini del passato, ma quelli di oggi, nelle nostre comunità cristiane. Cerchiamo di approfondire i due personaggi:

> Il termine ‘fariseo’ significa ‘separato’. Separato da che? Separato dal resto della gente. Il fariseo era colui che metteva in pratica, nella vita quotidiana, i ben 613 precetti che aveva estrapolato dalla legge di Mosè, stava meticolosamente attento a non infrangere nessuno dei 1.521 divieti di lavori da compiere nel giorno di sabato.

> I farisei volevano sempre fare molto di più di quello che era prescritto. Allora “digiuno due volte alla settimana” – esattamente il giovedì e il lunedì, in ricordo della salita e della discesa di Mosè dal Monte Sinai – “e pago le decime” – non solo su quanto è prescritto, ma “su tutto quello che possiedo”. Il fariseo fa più di quanto è prescritto: il digiuno era obbligatorio una volta all’anno, nel Giorno del Kippur, e la decima andava pagata solo su farina, mosto, olio. Quindi si vanta di fare quelle cose che poi Paolo, anche lui ex fariseo, dirà: “Non servono a nulla, sono cose inutili”.

> ll fariseo, stando in piedi: la preghiera gli serve per farsi vedere. Pregava così: l’evangelista scrive letteralmente “verso sé stesso” (πρὸς ἑαυτὸν); In realtà lui non prega il Signore, ma si compiace con se stesso; la sua preghiera è un pretesto per lodarsi; più che pregare, egli si prega; prega nella posizione giusta: in piedi, testa alta, braccia sollevate al cielo; però ha bisogno dello sfondo scuro, dei peccati altrui, per far risaltare meglio le proprie virtù. Il suo incipit è bellissimo: “Ti ringrazio, o Dio”, solo che non ringrazia Dio ma ringrazia sé stesso!

> Per quanto si cerchi qualche mancanza in quest’uomo, non si scopre nulla di biasimevole. È orgoglioso, è vero, ma non si tratta di colpe gravi e poi ha parecchie ragioni per sentirsi migliore degli altri. Ce ne fosse di gente così, onesta, giusta, irreprensibile! Perdoneremmo volentieri anche un po’ di orgoglio. Anche Paolo dichiara che tra i farisei ci sono persone zelanti (Rm 10,2).

> Il pubblicano: in stridente contrasto con il fariseo, ecco comparire sulla scena il secondo, un pubblicano, che esercita l’antipatico mestiere di riscuotere le tasse, per giunta è al servizio dei romani; sfruttatore, strozzino, ladro, collaborazionista; non ha nulla di buono da offrire a Dio. È carico soltanto di peccati! La legge dice che, per salvarsi, costui deve restituire tutto ciò che ha rubato, più il 20% di interessi e abbandonare immediatamente la sua infame professione. Le condizioni sono tanto difficili da attuare, che i rabbini affermano, concordi, che per i pubblicani la salvezza è praticamente impossibile. Resta in fondo alla chiesa, non osa alzare gli occhi in alto, le mani al cielo. Il pubblicano non confessa neppure le proprie colpe, perché l’accusa dei peccati già l’ha fatto il fariseo al suo posto; il fariseo elenca le malefatte, il pubblicano chiede perdono.

> Si batteva il petto dicendo: “Dicendo: ‘O Dio!” – e qui il verbo imperativo non è tanto ‘abbi pietà di me’, ma ‘sii benevolo’ (ἱλάσθητί μοι), cioè “sii misericordioso, benigno, nei miei confronti!”.

A questo punto entra in scena il Signore, che ha visto e sentito tutto, e sentenzia. Un capovolgimento di posizioni, molto frequente nel Vangelo: “Il pubblicano è giustificato, il fariseo è condannato”. Due uomini erano saliti per pregare, ma uno solo ha veramente pregato. Dio non condanna le opere buone del fariseo, né approva le disonestà del pubblicano. Ordina solo di “non giudicare”, di non credersi migliore di nessuno.

Adesso che abbiamo chiarito chi sono i due personaggi, da che parte stiamo? Gesù potrebbe esprimersi più o meno così: il fariseo sia un po’ più umile! Quanto al pubblicano: non bastano gli occhi bassi e un atto di dolore per essere a posto con Dio. Ci vuole altro: restituisca ai poveri i soldi che ha rubato e adempia le prescrizioni della legge. Gesù, invece, dice: “lo vi dico: il pubblicano tornò a casa sua giustificato a differenza dell’altro”. Con questa sentenza non possiamo essere d’accordo. Come si può condannare chi si è comportato bene e dichiarare giusto un peccatore? I nostri criteri di giustizia vengono stravolti.

Vediamo di chiarire. Il fariseo sbaglia, perché va al tempio portando con sé un carico di buone opere, accumulate con rigorose penitenze e attraverso l’osservanza scrupolosa di tutti i comandamenti. È convinto che questo basti a meritare la salvezza. Si noti: il fariseo non chiede a Dio di essere salvato, ma pretende che lo dichiari. Non capisce che tutte le sue opere buone, messe insieme, non gli conferiscono alcun ‘diritto’ alla salvezza. Anche oggi: in alcune persone religiose è presente questa mentalità farisaica, l’idea di poter ‘meritare’ (lucrare) davanti a Dio. Nessuno è completamente immune da questo ‘lievito’ che corrompe la vita delle comunità. Il Paradiso, per quanti meriti possiamo avere, resta sempre un dono. Noi non ci salviamo grazie ai nostri meriti o virtù, ma sempre e solo grazie a Dio (Mc 8,16). Nella vita civile ci può essere il “self made man” ma con Dio possiamo solo pregare, ricevere, ringraziare! Il Dio di Gesù non guarda i meriti delle persone, ma le loro necessità, non le loro virtù, ma i loro bisogni. È questo il significato della parabola, tra le più sconcertanti che troviamo nel Vangelo di Luca. BUONA VITA !