ALTRO CHE GOMORRA. Istante per istante, Ciccio e’ Brezza racconta il duplice omicidio di zio e nipote come mai nessuno ha fatto prima. Quella visita a Salvatore Amato “Cap e’ Puorc” e…

25 Febbraio 2020 - 18:23

CAPUA (gianluigi guarino) – Abbiamo sacrificato una bella manciata di minuti, forse addirittura un’ora, alle necessità fisiologiche di rispettare una frequenza standard di aggiornamento delle notizie di questo sito, perché rapiti, noi che da più di un lustro leggiamo pile di atti giudiziari, da una parte significativa e sostanziosa dell’interrogatorio che, qualche settimana fa, il neo collaboratore di giustizia Francesco Zagaria alias “Ciccio e’ Brezza, ha sostenuto, rispondendo nella parte del cosiddetto “esame”, alle domande del Pubblico ministero della Dda, Maurizio Giordano, al cospetto dei giudici della corte di Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere che lo stanno giudicando per il duplice omicidio, di cui è ormai reo confesso, del boss Sebastiano Caterino e di suo nipote Umberto De Falco, avvenuto proprio a Santa Maria Capua Vetere il 31 ottobre del 2003, ma anche per altri reati, su cui pesa anche l’aggravante camorristica, che lo vedono imputato al pari di alcuni politici di Capua, precisamente l’ex sindaco Carmine Antropoli e gli ex assessori Marco Ricci e Guido Taglialatela.

UN DOCUMENTO DI PRIMA CLASSE – Ne abbiamo letti a centinaia di interrogatori resi da pentiti, sia nelle aule dei tribunali, sia nelle fasi di indagine, di fronte ai Pubblici ministeri, sia, infine, nel corso dei canonici “6 mesi”, termine entro il quale il nuovo collaboratore di giustizia deve dire tutto ciò che sa, partendo dalla confessione dei propri delitti. Una fase, quest’ultima, esterna sia al dibattimento, sia alle indagini preliminari, relativamente, in quest’ultimo caso, ad un’inchiesta attivata dalla magistratura inquirente. Mai, però, c’eravamo così attaccati a un testo.

La ricostruzione dell’omicidio di Sebastiano Caterino, di cui chi scrive riteneva di sapere tutto (o quasi), visto che già quella mattina fui uno dei primissimi ad arrivare sulla scena del delitto, appostandomi a far foto sul ponte dell’Alifana, potrebbe essere tranquillamente adottata, nella sua struttura rappresentata dal racconto fatto da Francesco Zagaria, in uno di quei docu-film, in pratica dei documentari resi più fruibili dall’uso di attori professionisti, da mettere a disposizione degli studenti specializzandi in criminologia, con una tesi già assegnata sui fenomeni legati alle dinamiche interne ai clan della cosiddetta criminalità organizzata. Francesco Zagaria in questo omicidio ricopre un ruolo che va anche al di là di quello del semplice specchiettista.

LA RICERCA DELLA BASE E I PRIMI TENTATIVI FALLITI– Il suo racconto è dunque utilissimo, prezioso quanto meticoloso e dettagliato. Per volontà di Michele Zagaria, partecipa all’intera fase preparatoria, affiancando il super killer professionista Enrico Martinelli, il quale scarta l’ipotesi di far diventare il deposito di materiale edile che Francesco Zagaria aveva impiantato a San Prisco la base operativa del commando di morte, in quanto troppo distante dal luogo, la zona Iacp di Santa Maria Capua Vetere, in cui Sebastiano Caterino abitava e in cui presumibilmente l’omicidio sarebbe stato consumato. Dopo che anche una seconda ipotesi viene scartata, consistente nell’utilizzare un magazzino di un altro imprenditore di San Prisco, amico di Francesco Zagaria, la cui identità il Pm Giordano chiede all’imputato di far rimanere segreta, Zagaria continua a svolgere un ruolo essenziale, sotto il mandato del boss Michele Zagaria, che aveva parlato, impartendo le ultime direttive, direttamente a lui e al citato Martinelli prima della missione. In un primo momento, si tenta di far partire le auto dei killer da Casal Di Principe, ma si capisce presto che l’allerta, il segnale dato da Francesco Zagaria come specchiettista o da altri specchiettisti minori che controllavano Caterino in tutta la città, non si sarebbe mai combinato con i tempi non limitatissimi, occorrenti a raggiungere la città dell’Anfiteatro da Casal Di Principe, attraverso le strade interne che lambiscono, per capirci, la Reggia di Carditello. Riprende, allora, la ricerca di una base logistica. Questa viene trovata a 500 metri dal rione Iacp. La mette a disposizione un soggetto di cui Ciccio e’ Brezza non rivela il nome, invitato a comportarsi in questa maniera sempre dal Pm. Una distanza, questa volta, ideale che permette allo specchiettista di avvisare il commando formato da 7 persone, 6 delle quali hanno un’identità conosciuta da Ciccio e’ Brezza e da questi rivelata davanti ai giudici della corte di Assise.

Troverete, nello stralcio in calce, la formazione precisissima degli equipaggi delle due Alfa Romeo 166 grigie usate dai killer: Vincenzo Schiavone O Petill, che guida una delle vetture, il già citato Enrico Martinelli, Bruno Lanza, Michele Vitolo, Vincenzo Conte Nas e’ can, Oreste Caterino (Orestino per gli amici).

DA UNA PARTE IL KALASHNIKOV, A DUE METRI BAMBINI CHE GIOCANO – Una scena colpisce particolarmente Francesco Zagaria. Il commando dev’essere sempre pronto a prendere il segnale dagli specchiettisti, per cui Schiavone, Martinelli e compagnia sono seduti sulle scale della casa utilizzata come base logistica, indossando guanti di lattice  e imbracciando armi micidiali, precisamente un Kalashnikov, un fucile e una pistola. Anche questo è uno spaccato del documento allegato a questo articolo che merita di essere letto integralmente, al di là della nostra sintesi. Sembra la narrazione di un libro sulla malavita ed è cento volte più efficace di una qualsiasi forma romanzata di quel fumetto televisivo chiamato Gomorra. A Francesco Zagaria dà fastidio e rimane impressionato dal fatto che i killer impugnino le armi pronte a sparare mentre aspettano l’input per partire a pochissimi metri di distanza dal luogo in cui alcuni bambini piccoli, cioè i figli di chi ha messo a disposizione la casa, giocano, ignari di quello che sta accadendo intorno.

Beh, la riproduzione figurativa di una scena del genere rappresenterebbe una modalità di ricostruzione testimoniale di grandissimo pregio. Quel contrasto tra i delitti, l’attitudine assassina e l’innocenza non ancora corrotta dei bambini diventerebbe una sorta di iconografia di quello che la camorra e le mafie in generale sono state nei territori dell’Italia Meridionale.

L’ULTIMO PEDINAMENTO E LA VISITA A SALVATORE AMATO – Ancor più serrata è la ricostruzione i minuti che precedono il delitto. Rinnovandovi per l’ennesima volta l’invito a leggervi questo pezzo di letteratura criminale che vi mettiamo a disposizione come documento allegato all’articolo, vi diciamo che l’ultima persona che Sebastiano Caterino vede è un pezzo da 90 della criminalità organizzata sammaritana: Salvatore Amato, detto Cap e’ Puorc, riferimento stabile della camorra marcianisana a Santa Maria ma soprattutto rivale della famiglia Del Gaudio-Bellaggiò, sempre protetta dagli Schiavone. Ciccio e’ Brezza aggancia Sebastiano Caterino proprio mentre questi esce, insieme a suo nipote, dagli Iacp , all’interno della famosa Golf nera blindata (o semi-blindata). Lo segue sotto l’Arco di Adriano e distanziandosi un po’ per non dare nell’occhio, in piazza San Francesco e poi, passando per il distributore Gaffoil, di fronte all’Anfiteatro, fino a piazza Milbitz, cioè quella dove si trova la concessionaria Citroen, e poi, lambendo la scuola elementare Perna, nello slargo dove insiste l’abitazione di Amato. Dietro alla Fiat blu di Zagaria ci sono le due Alfa Romeo grigie che, sempre per evitare di essere individuate, si staccano dal momento in cui Sebastiano Caterino e il nipote scendono per entrare a casa di Cap e Puorc.

PERCHÉ’ IL TERRIBILE KILLER L’EVRAIUOLO ERA TRANQUILLO E NON SI ACCORSE DEI PEDINAMENTI? – Sebastiano Caterino non era un camorrista ordinario. Era stato uno degli uomini più vicini ad Antonio Bardellino e non aveva avuto neppure paura di fronteggiare iol clan dei Casalesi e in particolare Michele Zagaria, ingaggiando con lui inseguimenti mozzafiato e ammazzandogli esponenti significativi del suo gruppo, così come scritto in un precedent articolo (PUOI LEGGERE QUI). Sebastiano Caterino era detto “L’Evraiuolo” proprio per la sua specialissima capacità di strisciare, allo stesso modo con cui si muovono i militari dei gruppi speciali, sull’erba, in posizione orizzontale, in modo da arrivare improvvisamente al cospetto delle sue tante vittime, a quel punto inevitabilmente condannate. Risulta difficile pensare allora che uno così, un killer di prima fascia, si sia potuto muovere per giorni e giorni, senza accorgersi di essere pedinato, senza accorgersi che si stavano svolgendo fatti di cui lui stesso in passato era stato protagonista, quando a sua volta organizzava ed effettuava omicidi. Eppure è così. Quella Golf in cui viaggiava era un’auto con vetri rafforzati, ma non era realmente blindata. Caterino non si aspettava minimamente di essere nel mirino e quindi non fece mai caso a quella Punto blu che da giorni lo seguiva. Ciò accadde perché, come successo in tanti altri delitti, il clan dei Casalesi, oltre a eccellere nello sparare, possedeva l’innata capacità di trarre in inganno le proprie vittime. A Sebastiano Caterino era stato detto (o era stato fatto sapere) che gli Schiavone e gli altri gruppi del clan non l’avrebbero toccato e che lui si sarebbe potuto muover liberamente sulla piazza di Santa Maria Capua Vetere. Lui ci credette e risultò fatale per la sua morte.

L’ULTIMO VIAGGIO – Se le 166 dei 7 killer si staccano, non è così per Francesco Zagaria, che continua a seguire Caterino, il quale fa il percorso a ritroso. Arrivato in Piazza San Francesco, svolta a sinistra e imbocca l’Appia, ritornando verso l’Arco di Adriano. Il momento è dunque arrivato. Ciccio e’ Brezza capisce che il “target” sta tornando a casa e immediatamente, con i telefonini usa&getta che aveva comprato lui stesso presso un negozio di San Tammaro di cui non rivela il nome, per gli stessi motivi già esposti in altre parti di questo articolo, dà il segnale al commando che questa volta si trova convenientemente vicino al luogo in cui intende incrociare la propria vittima. Sebastiano Caterino svolta a destra, imbocca via dei Romani e nei pressi del ponte dell’Alifana una delle 166 fa una brusca retromarcia e, inchiodando, gli blocca la strada. Sono sequenze velocissime. La manovra avviene mentre partono già i primi colpi. Quelle armi consentono di spararne a decine e decine in pochissimi istanti. Insomma, un vero e proprio blitz a cui Francesco Zagaria assiste a debita distanza, sentendo distintamente il rumore degli sparo, dopo essersi allontanato allo scopo di non trovarsi nella linea di fuoco. Le 166 si dileguano e vengono incendiate dai componenti del commando che tornano verso Casal Di Principe imboccando prima la strada di campagna che ,sfiorando le vecchie serre dell’essiccazione del tabacco, portano nel centro abitato di San Tammaro e, successivamente, nelle solite strade interne che da Carditello proiettano direttamente verso Casal Di Principe.

IL DOPO OMICIDIO E L’INVESTITURA DA PARTE DEL BOSS – Francesco Zagaria va in piazza a Casapesenna. Scambia un cenno d’intesa con Pasquale Zagaria, fratello di Michele, e, dopo uno, due giorni, portato dal solito imprenditore al cospetto del super-boss Michele Zagaria, ne incassa i complimenti, a cui si associano quelli di un altro pezzo da 90 del clan, cioè di Giuseppe Caterino Peppinotto, presente anch’egli nell’occasione. E qui inizia l’ultimo momento cruciale, forse il più importante per chi vuole studiare, comprendere le dinamiche organizzative e relazionali al clan dei Casalesi. Questo è un gruppo criminale più concreto, ancor più pragmatico della mafia siciliana o della camorra cutoliana. Michele Zagaria non bacia in bocca Francesco Zagaria che, ricordiamo, veniva definito suo cugino ma che invece lo era di un altro Francesco Zagaria, quel Francuccio La Benzina, marito di Elvira Zagaria e dunque cognato del boss e di cui è stato per anni ministro dell’Economia e ambasciatore presso la politica casertana, deceduto di morte naturale solo un paio di mesi dopo la cattura Primula Rossa nell’arcinoto bunker di via Mascagni, e ai cui funerali partecipò, come scritto più volte, un noto politico che, chiariamo subito, non è Nicola Cosentino. Non lo bacia in bocca e nemmeno lo sottopone al rito del giuramento, Michele Zagaria fa una cosa più concreta, più realista: siccome Ciccio e’ Brezza ha dimostrato di essere un camorrista vero e di prima fascia, svolgendo un ruolo attivo e fondamentale per la realizzazione di un omicidio desiderato da tutti i maggiori boss del clan dei Casalesi, merita un premio. E questo arriva: da quell’istante Ciccio e’ Brezza diventa infatti, lui stesso un boss con tanto di galloni. Nelle zone di Capua, San Prisco, Santa Maria Capua Vetere, Grazzanise, Santa Maria La Fossa e dunque Brezza non dovrà dar conto a nessuno, potrà organizzare le sue attività criminali in piena libertà e in ogni settore: estorsioni, gare d’appalto e tutto quello che gli pare. Non dovrà dar conto nemmeno a Michele Zagaria, che non metterà becco in nessuno dei suoi affari. La devozione rispetto al capo potrà essere dimostrata a discrezione, cioè se e quando vorrà, dal nuovo capozona che, magari, su un estorsione più importante o su una gara d’appalto molto lucrosa, deciderà spontaneamente di portare una parte dei proventi a Casapesenna, consegnandola a Zio Michele. E’ un’investitura ufficiale, dunque, grazie alla quale l’essenza del boss diventa anche prassi in una delle attività tipiche dei capi: il soccorso, l’ausilio ai camorristi carcerati e alle loro famiglie. Da quel momento in poi, infatti, Ciccio e’ Brezza si occupa, versando somme, variabili tra i 2 mila o 3 mila euro “a botta“, alla famiglia dell’altro vecchio capozona, a quel punto recluso, Tonino Mezzero da Grazzanise.

Il resto, e ci sono tanti altri spunti interessanti, lo potrete leggere qui in basso.