LA CASSAZIONE restituisce agende, pc e hard disk al giornalista Mario De Michele. “Annullato” il Riesame. Il segreto professionale è sacro e salvo

11 Dicembre 2020 - 18:44

AVERSA (G.G.) – Ricordate la storia di Mario De Michele, il giornalista che si è dichiarato in parte responsabile dei reati a lui ascritti in merito alla vicenda di almeno uno dei due presunti attentati ricevuti?

La VI Sezione Penale della Corte di Cassazione di Roma ha assunto una decisione che gli addetti ai lavori sanno tranquillamente riconoscere come piuttosto rara.

Eh già, perché la Cassazione annulla molti provvedimenti dei Tribunali del Riesame, interni alla fase cautelare, ma nella stragrande maggioranza dei casi questo annullamento coincide con il rinvio degli atti allo stesso Riesame che, impegnando una Sezione diversa da quella che ha pronunciato la decisione impugnata, viene chiamato ancora una volta a sentenziare sulla questione dibattuta.

Nel caso specifico, invece, la Cassazione ha annullato senza rinvio la decisione del Tribunale della Libertà, restituendo, con effetto immediato, al giornalista Mario De Michele i dispositivi informatici, le agende e tutto ciò riguardante l’esercizio della sua attività di giornalista professionista, sequestrato il 15 maggio scorso, alla fine della ben nota perquisizione dove, sotto chiave, finirono anche le armi da fuoco che ovviamente restano sequestrate e su cui non c’è stato nessun tipo di ricorso da parte di De Michele e del suo difensore.

Certe volte se le vanno proprio a cercare, alcuni magistrati. Beati loro, lo possono fare a cuor leggero, visto che non esiste, in pratica, al di là di previsione meramente formali e decorative, un meccanismo sanzionatorio che magari può, rispetto a una serie di errori compiuti nell’elaborazione di uno o più provvedimenti, possa magari portare la toga ad una dolce, graduale fase di exit strategy dalla professione oppure, in alternativa, il suo utilizzo in aree riguardanti l’amministrazione della giustizia in cui possa fare meno danni.

Se uno pensa a questa cosa, si rende pure conto che non c’è categoria che abbia spinto l’insindacabilità sostanziale e fattuale del proprio agire ad un grado così alto, estremo.

È vero che siamo di fronte a un potere dello Stato a cui la Costituzione, ma anche la civiltà liberale garantisce la piena indipendenza, ma che c’entra, pure il presidente della Repubblica è una funzione indipendente, mentre il governo è a sua volta un potere indipendente.

Bene o male, se un ministro, un premier, spara una fesseria la punizione della pubblica riprovazione non gli sarà risparmiata.

Ciò nonostante il potere esecutivo, al pari di quello legislativo e di quello giudiziario, è totalmente indipendente.

Il provvedimento di perquisizione firmato direttamente dal procuratore della Repubblica di Napoli Melillo e dal coordinatore della Dda era finalizzato a trovare altre armi oltre a quelle già note e utilizzate da De Michele e da un suo complice nella circostanza confessata e, in via residuale si fa riferimento ad “agende, appunti, documenti anche informatici comunque pertinenti agli esposti calunniosi presentati del De Michele”.

Fin qui niente di trascendentale: si sa che la pubblica accusa deve fare il suo e prova sempre a cogliere il risultato pieno, a colpire il bersaglio grosso.

E così quel sequestro, frutto della parte residuale della perquisizione, si tradusse in una sorta di asso pigliatutto, visto che furono portati via pc, hard disk e schede telefoniche. In pratica tutto ciò con cui il De Michele svolgeva la professione da giornalista.

Il problema si è invece sviluppato, in maniera sorprendente, quando sul caso, lo scorso giugno è intervenuto il tribunale del Riesame di Napoli, chiamato in causa dall’avvocato Mario Griffo, legale di De Michele.

Respingere l’istanza fondata su argomenti sostanziosi, non velleitariamente connessi alla violazione di diritti costituzionalmente riconosciuti, non era facile.

E onestamente, sia detto con il massimo del rispetto possibile nei confronti dei giudici del Riesame, questi hanno dato la sensazione di andare già con la decisione incorporata.

Per cui, non hanno neanche escogitato grandi e sofisticate argomentazioni giuridiche per aggirare le ragioni del ricorso.

Si sono mossi alla carlona, in maniera sicuramente superficiale, quasi come se questa vicenda, da liquidare in 4 e 4 8 a fronte di quel decreto di perquisizione firmato dal Procuratore della Repubblica in persona, rappresentasse per loro una perdita di tempo.

Solo la superficialità e la distrazione possono infatti dare spiegazione alle cose fantascientifiche che il Riesame ha scritto, respingendo l’istanza di De Michele e del suo avvocato Mario Griffo.

Prima fra tutte, l’abolizione del segreto professionale.

Perché quello che il Riesame fa rimanere in piedi, non è neppure un simulacro dello stesso, visto e considerato che “la disciplina della tutela dell’anonimato delle fonti è posta a presidio, esclusivamente, del testimone e non già dell’indagato”.

“Ah, annamo bene!” direbbe Sora Lella Fabrizi, come spesso fa nei divertenti incisi contestualizzati all’interno dei servizi di Striscia la Notizia.

E qua, in tre parole, ci siamo giocati la libertà di espressione dentro alla quale c’è la necessità del segreto professionale, che non è posto a tutela del testimone, men che meno del giornalista professionista che è chiamato a rispettarlo, ma non è altro che un presidio fondamentale, come ha detto in passato la stessa Corte di Cassazione, ma anche la Corte di Strasburgo, di una struttura della democrazia che da un lato deve garantire la possibilità di esercitare il diritto di espressione, dall’altro lato deve mettere a disposizione gli strumenti perché questo possa svilupparsi nella professione che più lo interpreta e che vive per informare, ma anche per tutelare le proprie fonti affinché non accada mai che una rivelazione di identità delle stesse conduca a situazioni di pericolo o di discredito per chi ha informato il giornalista.

In poche parole, il Riesame fa diventare principale quello che il Pm aveva definito come residuale.

E allora il sequestro degli strumenti di lavoro del giornalista professionista, dei suoi archivi, delle agende, divengono, secondo l’eccentrica posizione del Tribunale napoletano, fondamentale elemento che va a connettersi direttamente all’attività di accertamento sui reati più o meno presunti compiuti da Mario De Michele.

E questo, come fa notare l’avvocato Mario Griffo, neppure l’accusa l’aveva scritto, magari conoscendo quei limiti, legati al segreto professionale, sancito dalle norme e presente con una formulazione ben chiara nello stesso Codice di Procedura Penale e che, invece, i magistrati del Riesame hanno trattato in maniera frettolosa, perché non possiamo mai pensare che giudici di quel livello non conoscano gli ordinamenti che regolano la professione giornalista e il testo dell’art. 200 comma 2 del Cpp.

Il contenuto completo del ricorso presentato dall’avvocato Griffo alla VI sezione della Corte di Cassazione, che già in passato aveva ordinato il dissequestro delle attrezzature professionali di altri giornalisti, lo potete leggere integralmente in calce.

Ci sono degli equilibri da rispettare. Due in particolare. Il primo riguarda la proporzionalità tra l’ipotesi di reato formulata e la pesante responsabilità che un magistrato assume nel momento in cui sceglie di acquisire strumenti dell’attività di un giornalista coperti dal segreto professionale.

Sequestrare un computer a un giornalista non è come farlo ad un ragioniere o ad un avvocato.

Occorre una specifica, doviziosa, precisa, dettagliata motivazione con la quale la pubblica accusa dichiara, mettendolo nero su bianco, che quel determinato file, quel determinato supporto informatico, quel determinato smartphone siano connessi alla formulazione ugualmente specificata dell’ipotesi di reato.

E non basta asserirlo. Questa connessione va declinata proprio perché, ha scritto la Cassazione in altri suoi pronunciamenti, qui si scherza con il fuoco, qui si corre il rischio di ledere diritti supremi fondamentali di tipo costituzionale e dunque, come tali, intangibili o quasi.

Il resto lo leggete nelle 9 pagine del ricorso presentato dall’avvocato Mario Griffo.

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