La Domenica di Don Galeone. La vita del cristiano dev’essere sobria e pura perché il Signore è vicino

13 Dicembre 2020 - 15:25

13 Dicembre 2020 – III Domenica di Avvento / B

IN MEZZO A NOI C’È “QUALCUNO” CHE FORSE NON CONOSCIAMO!

Prima lettura: Gioisco pienamente nel Signore! (Is 61,1). Seconda lettura: Conservarsi irreprensibili per la venuta del Signore (1Ts 5,16). Terza lettura: In mezzo a voi sta uno che non conoscete (Gv 1,6).

Prima lettura   Domenica scorsa abbiamo ascoltato l’invito del profeta anonimo Deuteroisaia ad abbandonare Babilonia e a ritornare in Gerusalemme. Passarono pochi anni e gli eventi politici gli diedero ragione: nel 538 a.C. il re persiano Ciro entrò trionfante in Babilonia ed emanò l’editto di libertà per tutti i deportati (Esd 6,3). Si realizzarono le sue promesse? No, a parte qualche leggero miglioramento. Nella sinagoga di Nazaret, all’inizio della vita pubblica, dopo avere letto queste parole del Tritoisaia, Gesù proclamò solennemente: “Oggi si è compiuta questa parola della Scrittura” (Lc 4,21). Eppure, neanche con Cristo si è adempiuta pienamente la Scrittura. Per uscire dall’imbarazzo, gli uomini di chiesa hanno spiegato la profezia in termini spirituali, come liberazione dal peccato, conversione del cuore… E’ vero, ma Gesù vuole anche il cambiamento delle strutture d’iniquità, comunità fraterne, rispetto della vita… Ogni liturgia, ogni preghiera, ogni sacramento… che non trasforma la vita è ipocrisia!

“Tra voi c’è uno che non conoscete!”   Queste parole attraversano i secoli e giungono sempre attuali nel nostro tempo. Gesù viveva da trent’anni tra gli ebrei che lo avevano visto lavorare, pregare, parlare; conoscevano tutto di lui ma non lo ri-conoscevano come Dio. Dopo tre anni di vita pubblica, di predicazioni e di miracoli, Gesù rivolge ai discepoli questo amaro rimprovero: “Da tanto tempo sono con voi e non mi avete ancora riconosciuto!” (Gv 14,6). La presenza di Gesù sarà sempre una presenza nascosta; anche dopo la risurrezione, Maddalena lo scambia per un giardiniere (Gv 20,11), e i discepoli di Emmaus lo riconoscono (Lc 24,13) solo alla fine del viaggio.

In questo racconto è chiaro che l’insegnamento e la testimonianza di Giovanni non coincidevano con quello che insegnavano e desideravano i dirigenti religiosi. Si consideri che nel Vangelo di Giovanni l’espressione “i giudei” designa gli uomini che si identificavano totalmente con i suoi dirigenti religiosi e specialmente le autorità supreme del Tempio. Per questo il Battista scatena l’allarme nei “giudei”, che inviano sacerdoti, leviti e farisei ad interrogarlo. Volevano sapere chi fosse quello strano predicatore che annunciava una nuova luce, fuori della città santa, il territorio della religione ufficiale che non tollera quel predicatore libero. Ciò che interessava ai dirigenti religiosi è quale titolo aveva Giovanni per predicare e battezzare. I titoli denotano potere. Il potere (cioè l’economia!) è ciò che ossessiona i sacerdoti. Ma il Battista non ha accettato titoli o incarichi. Giovanni era un “signor nessuno”. La sua autorità era la sua vita, il suo esempio, la sua libertà da tutto ed in tutto. È solo “una voce che grida nel deserto” (Gv 1,23). Non si tratta di umiltà. La chiave sta nel fatto che solo a partire dallo spogliarsi di ogni pretesa uno può essere testimone autorizzato della Luce, che è il Signore. Il Battista è stato una voce ascoltata ed accolta da alcuni, “i pubblicani e le prostitute” (Mt 21,32) e rifiutata da altri, i “sacerdoti e gli anziani” (Mt 21,32; 21,23). I “nessuno” ascoltano ed accolgono la voce del Signore. I “titolati” la rifiutano. Il Vangelo sconvolge le nostre sicurezze. Gesù è stato così audace da arrivare a dire ai sommi dirigenti religiosi che i pubblicani e le prostitute “entrano prima di loro nel Regno di Dio” (Mt 21,28). 

Gaudete…   La lingua ebraica biblica comprende circa 8.000 vocaboli, di cui 2.000 sono hapax legomena. 8.000 vocaboli sono pochi, è vero, ma anche tanti: nessuno di noi, parlando, usa 8.000 termini. La grande letteratura non è fatta di infinite parole, ma del “buon uso delle parole”. Da un popolo di pastori e agricoltori non possiamo aspettarci un vocabolario ricco di termini astratti o scientifici. Troviamo una dozzina di nomi per indicare il deserto, una ventina per le piante spinose, un nome tipico per la pioggia, molti nomi per indicare nuvole, sorgenti, cisterne. Anche gli animali domestici o pericolosi hanno nomi tipici: almeno cinque nomi distinguono cinque tipi di cavallette. Anche in arabo si contano oltre sessanta termini relativi al “cammello”. Forse è utile ricordare, a mo’ di esempio, che più di uno straniero turista in Italia rimane sconcertato dall’inventario relativo alla “pasta asciutta” o alla “pizza”. Pur essendo una lingua piuttosto povera di sinonimi, per esprimere la gioia, nella Bibbia troviamo ben 27 vocaboli! Ci sono le grida disperate di chi non trova risposte alle sue domande, ma più spesso risuonano i “canti di gioia di una moltitudine in festa” (Sal 43,5). Nei Vangeli incontriamo persone tristi: il giovane ricco che non ha la forza di staccarsi dalle ricchezze (Mt 19,22), i due discepoli in cammino verso Emmaus (Lc 24,17)… ma la gioia è il sentimento dominante: dalla promessa a Zaccaria (Lc1,14) alla gioia annunciata ai pastori (Lc 2,10), dalla gioia di Zaccheo che accoglie il Signore in casa (Lc 19,6), fino alla gioia della Pasqua (Gv 20,20). La stessa parola Vangelo è un invito alla gioia! Un personaggio solo aveva il viso sempre adirato, Giovanni Battista, eppure anche lui ha sussultato di gioia alla voce di Gesù (Gv 3,29).

… iterum dico: Gaudete!    Oggi è la domenica Gaudete; così era chiamata prima della riforma liturgica, a motivo dell’imperativo dell’antifona di ingresso. Se non si trattasse di parola di Dio, faremmo fatica a credere. Rallegrarsi è difficile. Eppure di gioia abbiamo bisogno; di mancanza di gioia si può anche morire. L’apostolo Paolo ci avverte: non si tratta di una piccola droga sentimentale. Dio è la causa della gioia: “Rallegratevi, perché il Signore è vicino!” (Fil 4,4). Non ci sono altre cause. Ma chi è Dio? Egli è onnipotente, ma non a servizio dei nostri progetti; egli è buono, ma non solo quando ci accontenta; egli è giusto, sia quando punisce gli altri, sia quando chiede la nostra conversione! E’ la conversione che ci introduce nella gioia. La gioia riuscirà anche a convertire gli altri: “Perché io creda nel loro Dio, bisognerebbe che i cristiani cantassero dei canti migliori, e che i suoi discepoli avessero un’aria più amabile” (F. Nietzsche). Purtroppo sul volto di tanti credenti si legge solo la mestizia: “Dove diavolo avete nascosto la vostra gioia? A vedervi così tristi, non si direbbe che a voi, e a voi soli è stata promessa la gioia del Signore!” (G. Bernanos). Nell’immaginario collettivo, quando qualcuno vede un prete o una suora, tocca ferro, fa scongiuri. Il poeta dell’amore J. Prevert paragona il prete a quegli insetti che, dovunque si poggiano, lasciano il loro lurido segno, perché su ogni sentimento hanno scritto: vietato, peccato, proibito! Che desolazione! Dio ne è costernato! Un cristianesimo triste vi spegne, un prete triste vi rovina la vita!

Dio non giudica, ma giustifica   La religione è spesso il culto della colpa e del peccato, per questo occorre sfatare il pregiudizio di un dio giudice giusto. Essere giudice è dare a ciascuno secondo quello che spetta; Dio però non ci tratta secondo i nostri meriti ma secondo il suo cuore; se il sole dovesse sorgere solo sui giusti, resteremmo tutti sempre al buio (Mt 5,45)! Nel Vangelo è scritto che il Padre non giudica nessuno (Gv 5, 22); e il Figlio non giudica nessuno (Gv 8,15). Allora come e da chi saremo giudicati? “La parola che io ho annunciato, quella vi giudicherà nell’ultimo giorno!” (Gv 12,48). Da se stesso ognuno si giudica, si punisce per non avere ascoltato la parola di Dio. Dio non “giudica”, Dio “giustifica”; non fa l’arido ragioniere che registra le entrate e le uscite, ma si dedica a trasformare il peccatore nel santo, l’ingiusto nel giusto, il violento nel pacifico. E’ questo l’unico lavoro degno di Dio. Cristo mette sempre il peccatore sopra il giusto: la prostituta Maddalena sopra il giusto Simone che la giudica (Lc 7,36); Matteo il pubblicano sopra i farisei che lo condannano (Mt 9,10); il figliol prodigo è festeggiato più del fratello maggiore (Lc 15,11); il piccolo Zaccheo è preferito a tutti i giusti religiosi di Gerico (Lc 19,1): la loro verità era nel loro futuro. “Homo est qui futurus est”, e in ogni uomo c’è sempre più futuro che passato. Noi somigliamo al dio che adoriamo. La nostra società è così repressiva, piena di giudici, censori, giustizieri… perché siamo diventati simili al dio che “giudica i vivi e i morti”; abbiamo sacralizzato il giudizio invece di divinizzare il perdono. Se crediamo che Dio è giusto, penseremo di fare un atto religioso scagliando la nostra pietra contro il colpevole (Gv 8,3).

Un sapiente indù ha detto che i cristiani hanno compreso solo una metà del Vangelo, quella meno impegnativa: “Cristo è Dio”; non hanno compreso l’altra metà, quella più difficile: “Cristo è uomo”, e quindi ogni male contro l’uomo è un male contro Cristo: “Lo avete fatto a me!”. Gli albergatori di Betlemme, se avessero saputo che Maria e Giuseppe portavano Dio con loro, li avrebbero accolti con festa; erano persone religiose, proprio come noi, ma hanno creduto che fossero due senzatetto, e non li hanno accolti; erano ragionevoli e prudenti; pensavano di chiudere la porta a due persone comuni, e la chiudevano a Dio. Anche i farisei erano persone religiose; i loro conti con Dio erano a posto, il sabato andavano in sinagoga, ma durante la settimana Cristo era in mezzo a loro ed essi non lo riconoscevano, lo contraddicevano sempre, finché se ne sbarazzarono appendendolo in croce.

Non si va in paradiso in carrozza!   E’ diffusa la sensazione che ormai viviamo in una società “post-cristiana”, nel senso che la fede sembra occupare la periferia e non il centro della vita. Proprio per questo oggi occorre essere testimoni coraggiosi, come Giovanni. Cosa significa oggi testimoniare la fede? Tra le tante risposte, oggi la liturgia ci offre quella di Giovanni: il distacco dal potere, dal benessere, dal successo. Forse il nostro non è il tempo dei grandi gesti e delle scelte drammatiche; noi italiani abbiamo la fortuna di vivere in una società dove la libertà religiosa è sostanzialmente garantita, e difficilmente rischiamo di finire in prigione, decollati, come Giovanni. Ma una qualche “morte” è ancora oggi necessaria a quanti vogliono testimoniare la propria fede. Vi sono dei “sì” al bene e dei “no” al male che dobbiamo pronunciare. Questi “sì” e questi “no” sono il silenzioso martirio al quale il cristiano è chiamato. Il giorno in cui nessuno fosse disposto a pagare anche un prezzo alto per la fede, quel giorno sarebbe la fine. Per fortuna, grazie alla presenza dello Spirito, ci saranno sempre testimoni, luminosi o ignoti, poco importa. BUONA VITA!