La DOMENICA di DON GALEONE. Melkisedek benedice Abramo ed è il simbolo dell’uomo qualunque che testimonia la fede

23 Giugno 2019 - 12:30

Nella prima lettura è presente Melkisedek, una delle figure più strane della Bibbia; non è un ebreo, eppure è re-sacerdote, offre a Dio pane e vino, e benedice persino Abramo, capostipite del popolo eletto. Melkisedek offre, accanto ad Abramo, un medesimo sacrificio. La figura di Melkisedek entra nelle nostre chiese e vi porta la religione del cosmo; egli è senza padre, senza madre, senza generazione, cioè l’uomo, l’uomo qualunque che siede accanto a noi. Melkisedek, che appare inattesa e misteriosa, è simbolo del sacerdozio umano originario, e insegna che vi è un sacerdozio molto più vasto del sacerdozio ebraico e di ogni sacerdozio clericale. Anche Adamo, posto nel paradiso terrestre, vive un’eucaristia originaria, e l’amore tra Adamo ed Eva è l’immagine degli inizi e della fine del mondo. Perché così sarà la fine. La Cena del Signore, per un verso si collega alla dinamica delle origini, e per un altro verso annuncia, prefigura, prepara la fine. La chiesa di Dio è il mondo, realmente universale. Il Cristo ha voluto ristabilire il progetto del Padre: le creature appartengono alla chiesa del Padre nel momento in cui nascono. La sapienza di Dio ha fatto un cerchio

sull’abisso e dentro questo cerchio tutte le creature sono, respirano, vivono. Tutti siamo interni a questo progetto del Padre. Credere nel Cristo non significa credere in una figura “particolare”, entrare in una religione “particolare”; significa entrare nella religione della creazione; significa prendere il bandolo dall’inizio; altrimenti anche il cristianesimo è parte fra le parti, e la sua fede può diventare fanatismo aggressivo. Noi cristiani non dobbiamo chiedere a nessuno la carta di identità. Chiunque è uomo siede fra noi, porta la voce della creazione. Il mosaico finale sarà il frutto della collaborazione di tutte le civiltà e religioni. I cristiani sono, o dovrebbero essere, gli amici del genere umano.

Oggi penso alle processioni del Corpus Domini di altri tempi, in cui la partecipazione dei fedeli e delle autorità alle sfilate aveva anche lo scopo di mostrare agli altri che noi eravamo i primi, i migliori, i più numerosi. C’era un elemento di sfida, insieme ad un po’ di gioia messianica. Oggi siamo riconsegnati alle nostre mense eucaristiche senza concessioni ai politici o ai potenti di turno. Non è una verità autolesionista, ma liberante: questa semplicità e povertà sono grazia di Dio! Allora, quando io celebro la Cena del Signore, non vivo una stanca abitudine, perché mi sento immerso della storia del mio mondo, e la illumino con la mia fede. La mia chiesa perde il recinto, ci ritroviamo tutti all’aria aperta, su un prato, a gruppi di 50, distinti ma non divisi, e tutti mangiamo a sazietà. Noi non siamo gli umbratili adoratori di un dio privato, ma viviamo negli spazi dell’uomo. Tutto ciò che è umano, ci riguarda, ci appartiene. Lo stare attorno a una mensa non vuole dire separazione o privilegio, ma riunirci per misurare le nostre responsabilità nei confronti degli altri, eliminare le cause delle divisioni, servire più efficacemente i fratelli. Con grande serietà, perché quando spezziamo il pane noi ricordiamo la morte di Gesù, e quindi chi ama gli altri come Cristo non può passare in questa vita tranquillo, non può andare in paradiso in carrozza!

Noi cristiani, dobbiamo sembrare della gente strana! Ci credono rigidi, nemici della donna, zelanti nella mortificazione del corpo, ostili all’amore … ed eccoci oggi a festeggiare un Corpo, ci rallegriamo, ci incantiamo, andiamo in estasi per un Corpo, per il Corpo di Cristo. Lo adoriamo, lo incensiamo, lo portiamo oggi in processione trionfalmente questo Corpo come la cosa più preziosa del mondo, come la nostra consolante speranza. Sappiamo tuttavia, e meglio di altri, come il corpo può tormentare, macchiare, turbare, avvilire. Sappiamo pur­troppo quali malvagi pensieri e desideri e curiosità vergognose può suscitare; sappiamo fin dove può cadere l’uomo ozioso, il cuore vuoto, la mano disoccupata: Signore, concedimi di poter contemplare il mio corpo e il mio cuore senza ribrezzo (P. Verlaine). Per questa ragione, per questa nostra disperante vergogna da sanare, Dio, il più amante e il più puro degli esseri, incarnandosi ha voluto consegnar­ci il suo Corpo; ha voluto fare del suo Corpo una gioia pura, un godimento casto. E’ un messaggio valido oggi più di ieri, perché assistiamo alla merci­ficazione della persona, alla ostentazione sensuale del corpo, alla degra­dazione dei sentimenti, alla ricerca spasmodica dell’avventura proibita. Dopo tanti Tractatus adversus corpus, andrebbe scritta oggi una teolo­gia del corpo, corpo di sangue, di muscoli, di passioni, ma anche denso di spirito, pieno di anima, immagine di Dio, abitato dallo Spirito, greve nella sua pesantezza animalesca, groviglio di vipere, ma anche impon­derabile leggerezza di essere. Va ripensata una società e una civiltà diversa, nella quale i sentimenti possano essere espressi e non repressi.

La distribuzione dei pani e dei pesci (Mt 14,13; Mc 8,1; Lc 9,10; Gv 6,1) è un ottimo esempio di fede adulta. Gesù con una barca raggiunge l’altra sponda del lago di Tiberiade. Ma tanta gente lo segue, egli si commuove e ritorna tra la folla. Che fare? Gridare alla folla: Andate nei villaggi vicini e ognuno si arrangi! come suggerivano i discepoli? No, sento compassione di questa folla. I Vangeli utilizzano il verbo greco σπλαγχνίζομαι, il cui significato si comprende tenendo conto che questo verbo si costruisce a partire dal so­stantivo σπλάγχνον, che al plurale indica gli organi interni, le viscere, dell’uomo e dell’animale. Per cui, in senso figurato, gli σπλάγχνα sono considerati come la sede dei sentimenti. Non è raro che i traduttori, quando incontrano questo verbo, lo tra­ducano con avere misericordia, avere compassione, dispiacersi. Tutto ciò è vero, ma tali traduzioni rischiano di farci pensare che Gesù reagiva come reagisce chiunque di fronte a un mendicante che chiede l’elemosina o a uno straccione che si trascina per la pubblica via. Molta gente, quando vede un tale accattone, sente dispiacere, compassione … e compie un’opera di misericordia (l’elemosina). E la cosa non va oltre. Ovviamente tutto ciò è buono. Ma non spiega ciò che faceva e viveva Gesù. Anche a costo di risultare noioso, è necessario insistere che σπλαγχνίζομαι significa letteralmente sentire una commozione delle proprie viscere. Esprime, pertanto, una reazione viscerale. È ciò che sentì il padre per il figlio traviato quando lo vi­de ritornare a casa (Lc 15,20), o ciò che visse quel samaritano esemplare quando incontrò lo sventurato che era stato bastonato da alcuni banditi (Lc 10,34). Gesù non sopportava il dolore degli altri. Lo stesso avvenne il giorno in cui Gesù incontrò un lebbroso (Mc 1,41). E altrettanto avvenne quando Gesù vide una donna vedova che andava a seppellire il suo unico figlio appena morto (Lc 7,13). La stessa compassione che sentì nel vedere due ciechi che chiedevano l’elemosina seduti sul bordo d’una strada (Mt 20,34). È importante tenere conto del fatto che la sensibilità di Gesù è ricordata nei Vangeli solamente quando si tratta di situazioni di sofferenza di altri. Non si parla di questo quando ciò che è in gioco è la sofferenza dello stesso Gesù. I Vangeli non fanno menzione della sua sensibilità se non quando si tratta della sofferenza di altri. Questo è un punto chiave nell’etica di Cristo.

Allora, cerchiamo di decifrare quest’episodio scritto in codice, perché possiamo crescere nella fede. Secondo una lettura semplicistica, è Gesù che moltiplica il pane; ma questo segno (σημείον) non è uno spettacolo di magia sacra. È per tutti un monito alla responsabilità, un appello alla generosità. Occorre attualizzare e interiorizzare: oggi, qui, cosa suggerisce quest’episodio del Vangelo alla mia coscienza? Allora, come è avvenuto il miracolo? Un ragazzo (Gv 6,9) ha due pesci e cinque pani d’orzo, il pane nuovo, fatto con il primo cereale che matura; nessuno gli chiede nulla e lui mette tutto a disposizione, perché è rimasto colpito dalle parole di Gesù. È stato un gesto contagioso: come un effetto domino o una reazione a catena, ognuno ha messo in comune le sue cose. È avvenuta una poderosa invasione di grazia! Il mio pane diventa il nostro Il poco pane condiviso fra tutti diventa sufficiente. A questo punto Gesù è intervenuto. Gesù, per operare il miracolo, non crea il pane dal nulla. Non trasforma, come gli aveva suggerito Satana nel deserto, le pietre in pane. Sarebbe comodo lasciare fare tutto a Dio, e noi restare artigliati rabbiosamente al nostro pane, preferire magari di buttarlo ammuffito nel cassonetto, anziché condividerlo nella fraternità. Il Vangelo non parla di moltiplicazione, ma di distribuzione, di un pane che non finisce. E mentre lo distribuivano non veniva a mancare, e mentre passava di mano in mano, restava in ogni mano. Come avvengano certi miracoli non lo sapremo mai. Ci sono e basta. Ci sono, quando a vincere è la legge della generosità. Date loro voi stessi da mangiare: ecco la fede adulta! Anche in questo, i ragazzi sono un esempio per noi adulti. Gesù non ha mani, ha soltanto le nostre mani per continuare oggi a sfamare. Cristo non ha piedi, ha soltanto i nostri piedi, la nostra voce, il nostro cuore per continuare ad andare, annunciare, amare gli uomini di oggi, come ha scritto M. Pomilio in Quinto evangelio. BUONA VITA!