La Domenica di Don Galeone: “Quando entriamo in un cimitero, ci dobbiamo sentire circondati da un’immensa folla di “dormienti” che attendono, come noi, il giorno della risurrezione”

27 Giugno 2021 - 16:25

27 giugno 2021 / Domenica XIII – (Anno B / TO)

L’uomo non è creato per la morte!

Prima lettura: Dio non ha creato la morte (Sap 1,13). Seconda lettura: Gesù da ricco che era si è fatto povero per voi (2 Cor 8,7). Terza lettura: Talìta, qumi! (Mc 5,21).

Prima lettura    Nonostante le sofferenze della vita, l’uomo ama la vita. A Ulisse, che nell’Ade cerca di consolarlo, Achille risponde: “Non abbellirmi la morte, o Ulisse! Preferirei, come un operaio, lavorare la terra di un altro uomo, piuttosto che regnare sui defunti!” (Odissea XI,448). Diversa è la concezione degli egizi, per i quali la morte era “una vita perpetua, in un regno meraviglioso, situato a occidente, illuminato sempre dal dio Sole”. Anche per i greci l’anima era immortale e sopravviveva al corpo mortale. Stranamente gli ebrei proclamarono, sì il Signore della vita (Nm 27,16), ma sempre in prospettiva terrena. L’ideale era “morire vecchio e sazio di giorni” (Gn 35,29). Nella Bibbia non compare nemmeno il termine ‘immortalità’! Il saggio Qoèlet, ancora pochi secoli prima di Cristo, era convinto che “la sorte degli uomini e delle bestie è la stessa: come muoiono queste, muoiono quelli” (Qo 3,19). Al tempo di Gesù la mentalità era mutata; la maggioranza del popolo – sadducei a parte – credeva nella risurrezione dei morti. Anche l’autore del libro della Sapienza, vissuto ad Alessandria poco prima di Gesù, afferma “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei giusti” (Sap 1,13). Ma subito nasce la domanda: se non da Dio, da dove allora viene la morte? La risposta della Scrittura: la morte è entrata nel mondo per il peccato. Ecco chi ha provocato la morte: il peccato. Chi alimenta l’odio, chi è vendicativo, violento, immorale… propaga la morte quasi fosse un virus (Sap 1,25). Naturalmente non parliamo della morte biologica: l’uomo muore realmente solo quando cessa di amare, quando diventa egoista, quando si allontana da Dio, che è “Sorgente della vita” (Prv 3,18).

Solo l’uomo sa di essere mortale!    “L’uomo è l’unico animale che sa di essere mortale” (André Malraux). Non siamo davvero uomini se non guardiamo in faccia questo mistero, se non troviamo, non dico la soluzione, almeno qualcosa per sopportarlo. La prigione del nostro orizzonte terrestre ha qualcosa di spietato, e contraddice tutte le nostre profonde aspirazioni. Si dice che “l’amore è più forte della morte” (Apuleio), e però la morte separa inesorabilmente quelli che si amano. Amare e non comunicare è solo dolore. Come si comprende Orfeo che, a rischio della vita, scende negli inferi a ricercare la bella Euridice, ma appena tenta di comunicare con lei, gli sfugge! Come si comprendono i sostenitori della metempsicosi e dello spiritismo! Ma ribellarsi è inutile: ribellarsi significa rinunciare a comprendere, e invece bisogna continuare a cercare. Perché la morte? A questa domanda, Gesù non risponde ma agisce, vive e fa vivere; attraverso i suoi gesti insinua che c’è una vita oltre la morte, come la coscienza persiste attraverso il sonno: la morte assomiglia alla fine come il sonno, ma per tutti e due c’è il risveglio. Quello che Gesù sollecita è la fede nell’onnipotenza dell’amore. La sua prima raccomandazione è: “Non avere paura, solo abbi fede!”. Quando qualcuno credeva davvero in Gesù, scopriva che niente più era impossibile: i malati erano guariti, la sterile concepiva, gli affamati non avevano più fame, gli avari si liberavano delle ricchezze, i peccatori ritrovavano l’innocenza, i morti risuscitavano! Dobbiamo liberarci da quell’istinto di morte che è alla base di tanta nostra religiosità, da tutti quei simboli di morte (drappi neri, teschi, trombe del giudizio, scheletri con la falce!) che facevano da cornice ad 2 una devozione macabra. Dio vuole che le cose vivano; egli non è il Dio dei morti ma dei vivi; nessuno per lui muore, ma tutti vivono dinanzi a lui.

Creati non per morire ma per vivere     L’evangelista Marco, con le sue tipiche composizioni a incastro, ci presenta due episodi uno dentro l’altro, senza forzatura, e con un denominatore comune: “Figlia, la tua fede ti ha salvata!” (Mc 5,34) … Giairo, continua ad avere fede!” (Mc 5,36). Il racconto presenta tre personaggi principali: ▪ la donna colpita da emorragia decide di prendere l’iniziativa; ha tentato da dodici anni tante terapie; finora è rimasta passiva nelle mani dei familiari e dei medici, capaci solo di aggravare la sua situazione sia clinica che finanziaria; allora decide il tutto per tutto, vuole almeno toccare il mantello di Gesù, elude tutti i controlli; non vuole più essere una “paziente” ma una “agente” e Gesù ama chi fa scelte precise, chi prende iniziative: “Donna, la tua fede ti ha salvata! (Mc 5,34)”; ▪ il padre ha un nome ed una professione: si chiama Giairo, che in ebraico significa “Dio illuminerà”, ed è il capo della sinagoga di Cafarnao; rappresenta, perciò, l’ebraismo ufficiale; ma per avere il miracolo occorre la fede, uscire dalla sinagoga. Giairo è un uomo libero dalle sovrastrutture e dall’orgoglio, perché il dolore mette in secondo piano dignità e prestigio. Gesù gli raccomanda: “Continua ad avere fede!” (Mc 5,36). Ossia: non avere paura delle ipocrisie della folla superficiale, sempre pronta allo spettacolo e alla critica; non per nulla la folla si mette a “deridere” Gesù, e perciò Gesù ordina di allontanarla, non capirebbe il mistero; ▪ Gesù, che l’evangelista Marco ama chiamare “Maestro” (Rabbì): egli emerge in tutta la sua semplice potenza; il suo gesto solenne, in quella cameretta, richiama il Dio creatore di Michelangelo, che con il dito chiama alla vita Adamo; a Gesù bastano due semplici parole in aramaico popolare “Talìta, qumi!” (Mc 5,41) e un gesto della mano. Nessun rito magico o sceneggiatura miracolistica. E in fine, commovente quell’attenzione quasi materna: “Date da mangiare a vostra figlia!” (Mc 5,43).

Risurrezione dei corpi, non immortalità dell’anima    I primi cristiani, quando annunciavano la vita eterna, trovavano forse un terreno favorevole, perché la filosofia dell’epoca affermava l’immortalità dell’anima; era un praeambulum fidei, ma anche un tradimento: l’immortalità veniva, infatti, pensata in termini spiritualistici; invece il cristiano crede nella risurrezione dei corpi. Oggi parlare di immortalità, risurrezione… può suscitare il sorriso. Proprio quanto accadde a Paolo ad Atene: venne deriso come un ciarlatano e lasciato solo: “Su questo argomento ti sentiremo un’altra volta!” (At 17,16). Una certa filosofia, antica e moderna, si è sforzata di fare accettare la morte con razionale serenità. Viviamo per morire, siamo destinati alla morte. Dura lex, sed lex! Ma l’uomo si ribella a questa lucida dottrina; chi ha gustato la vita, non vuole più morire. Gesù non dice: “Preparati a morire!”, ma “Preparati a vivere!” perché dalla cenere germoglia la vita. Gesù non è un “persuasore di morte” (peisithànatos), come insegnava Egesia di Cirene, ma si ribella, suda sangue (Lc 22,44), perché la morte è il negativo, è ciò che non dovrebbe essere. Prepararsi a fare una buona morte non è la sua filosofia! La filosofia normalizza la morte; nel vangelo invece essa è anormale, è il mistero, è la spina penetrata nella vita. La sua risurrezione ci assicura che la morte è anche una soglia aperta sui cieli nuovi e sui mondi nuovi. I santi l’hanno compreso, ecco perché, accanto ad espressioni di angoscia, troviamo esempi di pace, addirittura parole di desiderio, come quelle dell’apostolo Paolo: “Desidero morire per incontrarmi con Cristo” (Fil 1,23), e di Francesco di Assisi che lodava il Signore “per sora nostra morte corporale”.

Il cimitero, cioè il “dormitorio”    “La bambina non è morta, ma dorme”. Queste parole non esprimono un desiderio, ma una constatazione. Quella “piccola risurrezione” anticipa ed è segno della “grande risurrezione”, inaugurata da Gesù a Pasqua. Se comprendiamo bene questa verità, allora quelli che ci sembrano immensi luoghi di morte, diventano immensi luoghi di vita. Ricordiamo che i “cimiteri” sono in realtà solo “dormitori” (κοιμητήριον), cioè luoghi in cui si dorme in attesa del risveglio. Così li chiamavano i primi cristiani. Anche per gli ebrei il cimitero è chiamato “casa della vita” (Bet chayìm). Quando entriamo in un cimitero, ci dobbiamo sentire circondati da un’immensa folla di “dormienti” che attendono, come noi, il giorno della risurrezione. La bambina ebrea del racconto evangelico, di cui ignoriamo il nome, è la nostra piccola antenata. Ancora oggi, dopo duemila anni, essa non è morta, ma dorme. BUONA VITA!

Parabole di Gesù per l’uomo di oggi

Un giorno d’estate, il nipotino di un famoso scienziato, si presentò al nonno. Nella mano, che teneva nascosta dietro la schiena, il ragazzino stringeva un uccellino e con gli occhi maliziosi chiese al nonno: “Il canarino che ho nella mia mano è morto o vivo?”. “Morto”, rispose il nonno. Il ragazzo aprì la mano e ridendo lasciò scappare l’uccellino che prese immediatamente il volo. “Hai sbagliato!” rise. Se il nonno avesse risposto: “Vivo”, il ragazzo avrebbe stretto il pugno e soffocato l’uccellino. Morale. La morte o la vita eterna sono nelle nostre mani. Una popolare preghiera ucraina dice: “Ai tiranni Dio mandi i pidocchi, ai solitari i cani, le farfalle ai bambini. A noi tutti però un’aquila che con le sue ali ci porti fino a Lui” (dai racconti di Bruno Ferrero).