L’EDITORIALE. Calma: ora non diciamo che Sandokan, Zagaria e gli irriducibili non pentiti della CAMORRA usciranno dal carcere. Vi spieghiamo cosa c’è dentro alla sentenza della Corte Costituzionale

16 Aprile 2021 - 11:26

Se è vero, infatti, che il fine pena mai non può essere a prescindere, anche nei casi in cui il detenuto non è diventato collaboratore di giustizia o non s è dissociato, è anche vero che il riconoscimento del ravvedimento non è una passeggiata di piacere

 

di Gianluigi Guarino

La Corte Costituzionale ha inviato negli ultimi anni al Parlamento un bel pacco di lavoro da sbrigare. Ad esempio, per citare un fatto che riguarda la nostra categoria, ha detto a Camera e Senato di modificare la legge sulla diffamazione a mezzo stampa, eliminando per sempre le pene reclusive per i giornalisti, visto che una roba del genere non esiste in alcuna legislazione di qualsiasi paese democratico del mondo. Queste formali richieste, provenienti dalla Consulta, sviluppano una potestà, che pur non avendo lo stesso peso di quella suprema del Parlamento, rivendica, proprio nel momento in cui rispetta il primato di Camera e Senato, una prerogativa esclusiva che la Corte deve esercitare: il controllo di ogni legge e di ogni norma che possa essere sospettata per effetto di un’iniziativa autonoma della Corte o possa essere denunciata in quanto difforme ai principi e più concretamente ad uno degli articoli della Costituzione italiana.

Perchè se è vero che Palazzo Madama e Montecitorio sono sovrani, in quanto noi siamo una repubblica parlamentare, è anche vero che il Parlamento, che non a caso inserisce propri rappresentanti, nominando alcuni giudici costituzionali e alcuni membri del Consiglio Superiore della Magistratura, massimo organo dell’autonomia del potere giudiziario, non può, però, essere sovrano senza alcun limite. E’ il famoso sistema dei pesi e dei contrappesi: non esiste dunque una legge che, totalmente o parzialmente, possa non essere in linea con principi e norme della Costituzione. Ed è la Corte Costituzionale, alla quale può adire ogni cittadino, a decidere se la legge, un gruppo di norme, la singola norma, ma anche il più banale dei regolamenti, siano dentro al pur ampio perimetro che la Costituzione attribuisce al potere legislativo o se invece non lo sono. E se non lo sono, la corte ha il potere, con una sua sentenza, di azzerare la norma, la legge o qualsiasi altra fonte del diritto.

Nel rispetto del primato del Parlamento, dunque, i giudici della Consulta si muovono, in altri casi e in altre fattispecie, come si sono mossi con la citata legge sulla diffamazione a mezzo stampa e conseguentemente stabiliscono se la determinata legge, la determinata norma siano o meno in contrasto con la Costituzione. Ma il loro intervento non è immediatamente abolitorio, nel momento in cui sentenziano l’incostituzionalità di una legge o di una o più norme che delle leggi sono parti costitutive, ma danno al Parlamento un termine per modificare e per rimettere la legge o la norma colpita dagli strali della Corte, dentro al perimetro della compatibilità alla Carta Costituzionale. E così è successo ieri, quando la Consulta si è pronunciata sul ben conosciuto e anche piuttosto famigerato, in questo caso agli occhi dei liberali, “fine pena mai“.

Cerchiamo di capirci: non si tratta dell’abolizione dell’ergastolo. Il carcere a vita resta, ma solo quando ricorrono delle condizioni ben precise, cioè quando l’ergastolano dimostra di non aver incontrato un vero, genuino, sincero ravvedimento. In caso contrario, dopo 26 anni di reclusione, ha il diritto di uscire dal carcere. Noi non abbiamo letto il dispositivo della sentenza della Corte. Ma possiamo immaginare che questo sia incardinato nel principio esposto dall’articolo 27, comma 3 della nostra Carta, che così recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato“.

Devono tendere“, non si scappa. Non esiste cioè un altro significato, un diverso obiettivo, rispetto a quello della rieducazione. E se uno Stato rieduca, è perchè vuole reinserire il detenuto, anche il più efferato, purchè il ravvedimento che ovviamente va valutato in maniera dettagliatissima, profondissima, sia reale. Se un uomo uccide un altro uomo, insomma, altri uomini ancora, cioè i legislatori, non possono comportarsi come lui, decretandone la morte di fatto attraverso l’ineluttabilità e la irreversibilità del fine pena mai.

E’ un principio difficile da digerire per chi ha subito lutti e angherie assortite, se è vero, anzi, è sacrosanto che sentimenti di dolore e di rabbia siano molto importanti e debbano essere assorbiti sempre come tali dalla funzione di responsabilità di ogni organo dello stato, è anche vero che questi sentimenti della persona o di un gruppo di persone, non sono parimenti importanti rispetto all’affermazione di un principio che attiene alla struttura universale dei diritti dell’uomo e alla necessità che uno stato, un ordinamento debba dimostrare di essere migliore, cioè portatore di principi in antitesi con quelli che hanno spinto l’assassino a colpire.

Per cui, tornando, come si suol dire, “a bomba”, Francesco Schiavone Sandokan, Michele Zagaria, Francesco Bidognetti, Domenico Belforte, Giuseppe Setola e tutti gli altri ergastolani del clan dei casalesi, dei Mazzacane e di altre cosche criminali della provincia di Caserta, potranno giocare la carta di una possibile scarcerazione dopo 26 anni di reclusione.

Alt, “a noi gli occhi, please“, ancora una volta: per fare un esempio, Francesco Schiavone Sandokan, nel prossimo luglio, avrà scontato 23 anni filati in un carcere di massima sicurezza. Lui non ha solamente un ergastolo sul groppone, ma svariati verdetti definitivi di carcere a vita. Fra tre anni, però, se lui lo chiederà, la sua posizione potrà essere vagliata. Ma non è che ora Francesco Schiavone Sandokan, una volta appresa la sentenza della Corte Costituzionale, ordini un saio francescano alla direzione del carcere in cui si trova e dimostri così di essersi ravveduto e ritiene che questo sia sufficiente per dimostrare di essersi ravveduto e per uscire dalla galera fra tre anni, cioè nell’estate, nel luglio 2024, cioè alla scadenza del 26esimo anno di reclusione. Lo stesso vale per tutti gli altri boss.

Se infatti è vero che la Corte Costituzionale non pone quale requisito per il riconoscimento dello status di ravveduto, la circostanza di un formale pentimento con la conseguente assunzione del ruolo di collaboratore di giustizia; se non pone neppure la condizione della dissociazione, sempre formalizzata, secondo le norme che regolano questo particolare istituto, mezzano tra l’irriducibilità e il pentimento giuridicamente considerato, sin dai tempi del terrorismo brigatista, fa rimanere ben piantato nell’ordinamento il requisito irrinunciabile del ravvedimento.

Il che, badate bene, non è una cosa semplice, ma ha a che fare con i comportamenti avuti durante l’intero periodo carcerario o quantomeno durante gran parte di esso. Riteniamo che si tratti della somma dei rapporti, delle relazioni accumulate dalla direzione dell’amministrazione penitenziaria o Dap che dir si voglia, a firma dei direttori e del personale dei penitenziari. Procedimenti in cui entra naturalmente anche la potestà dei giudici della Sorveglianza; riteniamo che la certificazione di ravvedimento sia frutto di una lunga teoria di colloqui con mediatori sociali, con specialisti di ogni genere che possano cogliere senza dubbio forme di mimetizzazione o di finto tormento, perchè solamente tormentato e tormentoso può essere il percorso di sofferenza di uno che ha ammazzato o ha fatto ammazzare propri simili.

Questa nostra breve nota, precede l’articolo di agenzia che, in termini più sintetici, espone quello che si è appena spiegato. Abbiamo ritenuto necessario scriverla, perchè, nel tritacarne delle necessità che ogni giorno i media hanno di inseguire l’obiettivo di una copia di giornale in più da vendere, di un mezzo punto di share da guadagnare o da 100 click in più da ottenere direttamente o indirettamente, tendono a semplificare le questioni, evidenziando l’aspetto della notizia che può meglio stimolare l’emotività di chi la legge o di chi la sente, col corredo delle immagini televisive.

Lo chiamano sensazionalismo e noi di CasertaCe ne siamo sempre preoccupati perchè, pur non rifuggendo dal metodo dei titoli coloriti, che possano attirare l’attenzione, non potendo essere noi, da liberali, nè bacchettone, nè addirittura fondamentalisti del conformismo del buon giornalismo che il più delle volte è la foglia di fico di un’ipocrisia che nasconde le peggiori nefandezze, i peggiori tradimenti dei principi e degli ideali del nostro mestiere, ci sfibriamo letteralmente, “ci rompiamo il mazzo” nel corso delle nostre giornate, scrivendo tanti articoli come questo, perchè preoccupati, che coglioni che siamo, dell’etica professionale e di collegare ampie, articolate e a volte complesse argomentazioni ad un titolo forte da noi pubblicato. Qualcuno ci dice, ma chi ve lo fa fare. La coscienza, baby, una roba più conosciuta di tutti i tempi.

 

QUI SOTTO IL TESTO DELL’ARTICOLO DI AGENZIA

E’ incompatibile con la Costituzione l’ergastolo ostativo a cui sono condannati boss e affiliati alla mafia e che impedisce loro, se non collaborano, di accedere (dopo 26 anni di reclusione) alla liberazione condizionale, anche quando e’ certo che si sono ravveduti. La Corte costituzionale non ha alcun dubbio e da’ un anno di tempo al Parlamento per provvedere con una legge, consapevole dell’impatto che una sentenza di incostituzionalita’ immediatamente efficace potrebbe avere sulla lotta alla mafia. Ma e’ chiaro sin da ora che se il legislatore restera’ a braccia conserte, a maggio del 2022 la Consulta cancellera’ quella norma che ritiene in contrasto con principi basilari della Carta fondamentale. Il perche’ lo spiega in un’ordinanza che depositera’ nelle prossime settimane, come anticipato da una nota dell’Ufficio stampa. Gia’ monta pero’ la polemica, che divide la maggioranza di governo.

Per mafiosi e assassini l’ergastolo non si tocca“, attacca il leader della Lega Matteo Salvini. In trincea anche i parlamentari M5S della commissioni Antimafia e Giustizia (nessun “passo indietro” sull’ergastolo ostativo, chiedono). Mentre il Pd apprezza la “scelta saggia” della Consulta di dar tempo al Parlamento di intervenire, gia’ compiuta in due altre occasioni, sul suicidio assistito cioe’ sul caso del Dj Fabo, e sul carcere per i giornalisti condannati per diffamazione. Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni, si augura che il legislatore intervenga “presto” ma “in modo da non pregiudicare l’efficacia di una normativa antimafia costata la vita a tanti uomini delle istituzioni”. Per Antigone invece ”l’incostituzionalita’ e’ accertata e non si potra’ tornare indietro”.

La decisione critica della Consulta sull’ergastolo ostativo non giunge pero’ inaspettata: anche in due pareri resi dall’ufficio legislativo del ministero della Giustizia ,quando ancora a guidarlo era Alfonso Bonafede, si evidenziavano le “notevoli possibilita’” che la questione di costituzionalita’ fosse accolta. Sul punto la Consulta e’ chiara: l’attuale disciplina dell’ergastolo ostativo “e’ in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione” (e dunque con il principio della funzione rieducativa della pena e dell’uguaglianza di fronte alla legge) e stride “con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo” , visto che fa della collaborazione “l’unico modo per il mafioso condannato di recuperare la liberta‘”. Tuttavia, poiche’ l’accoglimento immediato delle questioni sollevate dalla Cassazione, “rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalita’ organizzata”, la Corte ha dato tempo al Parlamento per mettere a punto interventi “che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalita’ organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessita’ di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi“.

In tutto sono 1.271 i detenuti all’ergastolo ostativo. Non sono tutti mafiosi, ma anche terroristi e condannati per reati particolarmente gravi. Tra loro ci sono Giovanni Riina, figlio del capo dei capi di Costa Nostra e Leoluca Bagarella, finito in carcere nel 1995. Ma anche Michele Zagaria, capo clan dei Casalesi e Giovanni Strangio, affiliato alla ‘ndrangheta arrestato nel 2009.