La domenica di don Franco: La festa della Candelora, dalle tenebre alla luce

2 Febbraio 2020 - 10:58

2 febbraio 2020 – Presentazione del Signore T.O. (A)

DALLE TENEBRE … ALLA LUCE

gruppo biblico ebraico-cristiano השרשים הקדושים

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Presentarono il Bambino al Tempio… e cresceva in sapienza e grazia  Anche i genitori cristiani devono “presentare i loro bambini a Dio” e aiutarli poi a “crescere in sapienza e grazia”, cioè non solo fisicamente e culturalmente ma anche spiritualmente. Cosa può significare oggi presentare il proprio bambino a Dio? Significa riconoscere che i figli sono un dono di Dio, che appartengono a Lui prima ancora che ai genitori. Vengono da noi ma non sono nostri. Ma non basta offrirli al Signore all’inizio della vita, facendoli battezzare: bisogna poi educarli alla fede e i genitori sono i primi evangelizzatori dei figli. Allora diventano non solo genitori ma anche educatori. Lo sono, a volte senza accorgersi, con le preghiere che insegnano, le risposte alle domande, i giudizi emessi alla loro presenza. Ci si chiede a volte se è giusto e se vale la pena seminare nei figli, fin dai primi anni di vita, i germi della fede, sapendo quali maestri si sostituiranno ai genitori, appena usciranno da casa, a quante crisi andranno incontro, già negli anni di scuola. Dubbi legittimi, che però non devono scoraggiare.

Il Vangelo: luce nella vita . Nella festa della Presentazione, Gesù fu proclamato da Simeone “luce delle genti”; sono benedette le candele, e anche per questo la festa era chiamata popolarmente “la Candelora”. Io credo che il compito dei genitori verso i figli sia simboleggiato molto bene da questa candela. Un poeta ha così descritto allegoricamente la parabola della sua vita: “Un giorno partii per un lungo viaggio. Era ancora buio quando uscii da casa e mia madre mi mise in mano una piccola candela per illuminarmi la strada, raccomandandomi di non spegnerla mai. Camminai per ore alla luce di quella candela, poi sorse il sole e la luce della candela cominciò a impallidire, finché a mezzogiorno fui tentato di spegnerla. Mi ricordai della promessa fatta a mia madre e continuai a tenerla accesa. Camminai ancora a lungo, finché il sole cominciò a tramontare e si fece di nuovo buio attorno a me. La candela che tenevo in mano cominciò di nuovo a illuminare, finché, fattosi buio completo, mi accorsi che era l’unica cosa che mi permetteva di continuare a camminare. E fui felice di non avere mai spento la candela”.

Così è della fede che un bambino riceve dai genitori all’inizio del grande viaggio della vita. Dapprima è tutto. Poi si accendono altre luci, altri valori, altri interessi che vengono ad occupare la mente. La fede, che si aveva da bambini, spesso viene eclissata e non ci si accorge neppure più di averla. Ma viene la sera, il tempo in cui le molte luci che ci hanno abbagliato, una dopo l’altra, si spengono. Il mezzo migliore, se si vuole trasmettere ai figli la fede, è di viverla con essi e dinanzi ad essi. Quando si è fatto tutto il possibile e non si può più parlare di Dio ai figli, è giunto il momento – diceva S. Francesco di Sales a una mamma – di parlare a Dio dei figli, cioè di pregare per loro.

Gesù appartiene a ogni uomo. Maria e Giuseppe portano Gesù al Tempio per presentarlo al Signore, ma subito le braccia di un uomo e di una donna se lo contendono: Gesù non appartiene al Tempio, egli appartiene all’uomo. È nostro, di tutti gli uomini e le donne assetati di una vita buona. Gesù non è accolto dai sacerdoti, ma da un anziano e un’anziana senza ruolo, due innamorati di Dio che hanno occhi velati dalla vecchiaia ma ancora accesi dal desiderio. È la vecchiaia del mondo che accoglie fra le sue braccia l’eterna giovinezza di Dio. Lo Spirito aveva rivelato a Simeone che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia. Simeone aspettava la consolazione di Israele. Ha saputo aspettare. Come lui il cristiano crede tenacemente che qualcosa può accadere. Se aspetti, gli occhi si fanno attenti, penetranti, e vedono la salvezza preparata davanti a tutti i popoli (v.31).

Simeone dice poi tre parole immense a Maria, e che sono anche per noi: egli è qui come caduta, come risurrezione, come segno di contraddizione. Caduta dei nostri piccoli o grandi idoli, che fa cadere in rovina il nostro mondo di maschere e bugie, che contraddice la quieta mediocrità, il disamore e le idee false di Dio. Cristo come risurrezione: forza che mi ha fatto ripartire quando avevo il vuoto dentro. Risurrezione della nobiltà che è in ogni uomo, anche il più perduto e disperato. Gesù ha il potere di far vedere che le cose sono abitate da un “Oltre”, da un “Altro”.

“Gesù: un ebreo e lo è per sempre”.  Questa festa è anche un’occasione per riflettere sull’ebraismo d Gesù. Gesù è stato ebreo, educato nella cultura e nella religione di Israele. Il cristianesimo ha le sue radici nella religione di Israele. Questo non vuole dire che il cristianesimo sia un prolungamento del giudaismo. L’originalità di Gesù è consistita soprattutto nello spostare il centro della religione. Il centro del Vangelo non sta nel Tempio e nei suoi rituali, non sta nel sacro contrapposto al profano. Il centro del Vangelo sta nella bontà dimostrata da Gesù nelle sue tre grandi preoccupazioni: la salute degli ammalati, l’alimentazione dei poveri e le migliori relazioni umane. Gesù ha modificato alla radice la nostra comprensione del fatto religioso.

Nel documento Sussidi (Per una corretta presentazione di ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, giugno 1985), si legge quest’affermazione: “Gli ebrei e l’ebraismo non dovrebbero occupare un posto occasionale e marginale nella catechesi e nella predicazione”. Sono parole importanti perché ci ricordano che il cristianesimo non è nato bello e perfetto come la classica Minerva tutta armata dal cervello di Giove, o co­me un colpo di pistola, secondo l’immagine del filosofo Schelling. Sostenere che il cristianesimo sia sorto per una specie di partenogenesi, sen­za padre né madre, come Melki-tzèdeq, significa sostenere che una figlia (la Chiesa) non ha una madre (la Sinagoga), che un effetto non ha una causa. Affermare questi colle­gamenti non vuol dire negare l’originalità del Vangelo cristiano, ma solo ribadire che il rapporto fra le due reli­gioni è complesso, ricco, dialettico. Gli ebrei possono dirci chi è Gesù, come ebreo. Abbiamo bisogno degli ebrei perché essi hanno con la Scrittura un legame intenso, quasi carnale, e ci possono raccontare quei 20 anni oscuri della vita dell’ebreo Gesù (R. Aron, Gli anni oscuri di Gesù).

Se Gesù appartiene al Popolo della promessa (Rm 9,1-5), ciò significa che la sua fede è una fede ebraica; forse ha ragione P. Lapide, esegeta neotestamentario ebreo, quando afferma di essere alla ricerca del quinto Gesù, non del Gesù dei quattro evangelisti greci, ma di quello originario, pre-ecclesiastico, quello terreno, tridimensionale e storico, che predicò nelle sinagoghe di Galilea, che in perfetto stile rabbinico discusse con scribi, dottori, farisei. Quindi va preso in considerazione non solo quello che Gesù “ha detto” ma anche quello che “non-ha-detto”, nel senso che egli faceva implicito riferimento a quello che i suoi ascoltatori conoscevano bene. Nei Vangeli c’è il detto, e bastano occhi critici, ma per il non detto occorre un fine udito, come Gesù stesso ripeteva: Chi ha orecchi per intendere, intenda, che per un ebreo significa: “Per favore, non prendetemi alla lettera ma state attenti al senso profondo (σημείον) nascosto dietro le parole!”. Noi cristiani dobbiamo rispettare, ammirare e stimare gli ebrei. Per questo leggiamo con interesse e devozione le tradizioni di tutta la Bibbia. Ma sapendo che il centro della nostra fede sta in Gesù e nel suo messaggio sul Regno di Dio. BUONA VITA!