CLAN DEI CASALESI, altre due ditte con prestanomi. Perchè non ci convince l’argomento del gip sul “timore” che Carmine Schiavone non diceva di avere

1 Giugno 2020 - 12:53

CASAL DI PRINCIPE(g.g.) Il gip del tribunale di Napoli Ludovica Mancini ha considerato l’intera impalcatura della richiesta, formulatale dalla dda, a conclusione dell’indagine che noi abbiamo denominato, per comodità, “La Contessa” dal nome del noto ristorante di Giugliano di proprietà dall’iper-chiacchierato Salvatore Sestile, non supportata da sufficienti elementi per riconoscere formalmente l’esistenza anche di uno solo dei casi prospettati di intestazione fittizia delle imprese controllate da Carmine Schiavone di Eliseo, direttamente imparentato con la famiglia di Sandokan.

Anche i due casi che brevemente tratteremo oggi, incrociano il diniego del giudice alla richiesta di applicazione di misure cautelari limitative della libertà personale, formulate dalla dda. Detto ciò e segnalato, come faremo nel corpo di ogni articolo da noi dedicato a queste vicende, che Carmine Schiavone, forte dell’interpretazione data a monte dal gip dal tribunale di Napoli, ha chiuso la partita con un’archiviazione, non possiamo non interessarci nel momento in cui affrontiamo questi atti giudiziari con il piglio degli storici, non sottolineare quelli che invece restano, a nostro avviso, forti sospetti di un controllo centralizzato che il clan dei casalesi esercitava su un vero e proprio nugolo di imprese, per la maggior parte dedite alla costruzione edilizia e di opere pubbliche.

Dicevamo dei casi di oggi: M & P. sas di Cesare e Luigi Massaro di Casal di Principe e la già nota Giomar che poi è l’impresa utilizzata negli importanti cantieri di Portico di Caserta e del centro polifunzionale, di cui abbiamo scritto decine e decine di volte.

Partiamo con la M&P: effettivamente, in questo caso, l’unico elemento portato dalla Procura è costituito dall’intervento diretto dell’onnipresente Andrea Perrone, vero e proprio uomo ovunque di Carmine Schiavone, nella presentazione, al comune di Roccamonfina, della documentazione per i lavori di riqualificazione dell’istituto comprensivo di via Roma. E’ proprio Perrone a dare a  Massaro tutte le indicazioni precise e perentorie per approntare la documentazione che serve alla M&P per partecipare alla citata gara.

Più importante è sicuramente la questione Giomar. Qui anche il giudice deve ammettere l’esistenza di un controllo di fatto di Carmine Schiavone. In verità, il gip scrive “anche di Carmine Schiavone“. Perrone plenipotenziario, ma fino ad un certo punto: quando il benzinaio deve erogare il carburante ad una Panda condotta dal citato Perrone, l’omino con la pompa in mano che probabilmente è il titolare di quel distributore, non chiama uno qualsiasi e nè probabilmente chiude la partita con Perrone. Digita, invece il numero di telefono di Carmine Schiavone, al quale chiede conferma sulla proprietà dell’auto da parte della Giomar. Quella tra il benzinaio e Schiavone non è una conversazione alla buona.

L’imprenditore, infatti, gli dà direttive ben precise, a dimostrazione che quando c’erano i soldi di mezzo, neanche di Perrone si fidava. Al riguardo, ordina al titolare del distributore di erogare carburante solo a quell’auto e di non farlo, invece, quando sarebbe arrivata, per il rifornimento, la “Toyota Yaris” di proprietà della moglie di Perrone. Se concentriamo la nostra attenzione sul fatto in sè e per sè, questo può anche risultare non determinante. Ma la precisione con cui Schiavone suddivide il patrimonio della Giomar da quello che con Giomar non c’entra, pur essendovi contiguo, fa capire bene che le redini di questa società, titolare di appalti per decine e decine di milioni, erano saldamente nelle mani di Carmine Schiavone.

Beninteso, questo è un nostro punto di vista che collima stavolta con quello della giudice, la quale, però, non fa la giornalista e dunque ha bisogno di elementi ulteriori per riconoscere l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza. E questi elementi non li trova.

Il resto di ciò che il gip scrive su Giomar collega la figura del geometra Andrea Perrone ad un contesto imprenditoriale della famiglia Schiavone. Carmine, infatti, chiama nella sua sede il fratello Vincenzo per parlare dello stipendio che Giomar deve corrispondere a Perrone. E’ un meccanismo che dalle intercettazioni risulta chiaro, almeno ai nostri occhi. Esiste una connessione tra l’attività di Giomar e EMG Appalti società che fa capo proprio a Vincenzo Schiavone. Esiste una telefonata tra Schiavone e Rammairone, in cui il primo si informa sugli appalti in corso in diversi enti pubblici.

Questo andava scritto nella ricostruzione storica dei fatti. Va aggiunto, ritornando per un attimo alla questione strettissimamente giudiziaria, che per il gip Ludovica Mancini manca la presenza di quel “dolo specifico” di cui abbiamo già scritto sabato pomeriggio (CLIKKA QUI PER LEGGERE), condizione assolutamente necessaria per certificare l’esistenza di quei gravi indizi di colpevolezza riguardanti il reato di intestazione fittizia. La spiegazione tecnica la potete leggere tranquillamente sia nell’articolo di cui vi abbiamo fornito il link, qualche riga fa, sia nello stralcio dell’ordinanza che pubblichiamo in calce a questo nostro lavoro odierno.

In poche parole, mancherebbe la dimostrazione che Carmine Schiavone temesse l’instaurazione di un procedimento giudiziario finalizzato all’emanazione di misure di prevenzione patrimoniali.

Nostra piccola chiosa: queste qui erano holding. Qui non si ragionava di una o due imprese che si muovevano di soppiatto con prestanomi ma nell’interesse del clan. Stiamo parlando di un reticolato di soggetti economici e di un meccanismo collaudatissimo a cui i vari Carmine Schiavone erano abituati e dunque non avevano certo la necessità emotiva di dichiarare, in maniera esplicita, nelle conversazioni intercettate o nelle azioni che compivano, il loro timore per eventuali misure di prevenzione patrimoniale. Questa prospettiva che i camorristi hanno sempre visto come un pericolo, riempiva la loro vita e quella delle loro famiglie da tanti e tanti anni che l’idea che ci potesse essere un’asserzione frequente che collegasse l’agire al pericolo di un sequestro di beni, rappresenta una idea piuttosto ingenua e forse non corroborata da una conoscenza storico culturale del fenomeno camorristico denominato “clan dei casalesi”. 

Giudice Ludovica Mancini, sia detto con rispetto: ma quel timore andava da sè, sottinteso com’era, da decenni e decenni di pratiche criminali (a un certo punto il clan dei casalesi ha concentrato ogni propria energia solo su questa attività) finalizzate a nascondere i patrimoni della camorra. 

 

QUI SOTTO LO STRALCIO DELL’ORDINANZA