L’OMICIDIO DELLA MASSERIA ADINOLFI. Anatomia di un delitto. Il presunto assassino punta sulla legittima difesa. Le testimonianze di Emanuela e Andrea Adinolfi
19 Giugno 2025 - 20:00

Non ha convalidato il fermo ma ha emesso una ordinanza di custodia cautelare in carcere per il cuoco quasi 22enne, ritenendo che sia stato lui ad uccidere l’assistente gambiano 17enne. I due si erano conosciuti nella comunità Cassiopea di S.Maria C.V. Il profilo psicologico dell’assassino e i motivi per cui deve rimanere in cella e non può stare ai domiciliari
CAPUA (Gianluigi Guarino) – Per chi legge le notizie cercando il loro significato concreto, può sembrare una questione di lana caprina apprendere che Pranto Hawlader, cuoco del Bangladesh residente a Santa Maria Capua Vetere, 22 anni il prossimo agosto, resti in carcere nonostante il giudice per le indagini preliminari, Daniela Vecchiarelli, non abbia convalidato il fermo eseguito dai Carabinieri di Capua domenica scorsa. Tuttavia, su richiesta della Procura della Repubblica, ha comunque emesso una misura di custodia cautelare in carcere, ritenendo sussistenti gravi indizi di colpevolezza e una pericolosità sociale tale da non giustificare misure meno afflittive, come ad esempio gli arresti domiciliari, anche se integrati da braccialetto elettronico.
Diventa invece interessante, per chi si occupa dell’amministrazione della giustizia – e per noi che, pur non essendo giudici, avvocati né cancellieri, trattiamo quotidianamente questi temi nei nostri articoli – capire le motivazioni del Gip.
La giudice Vecchiarelli ha ritenuto non convincenti le tesi esposte dal PM Mariangela Condello in merito al pericolo di fuga, motivo per cui era stata richiesta la convalida del fermo. Le argomentazioni sono state giudicate generiche e giuridicamente deboli. Chi legge l’ordinanza potrebbe quindi pensare che il cuoco sia tornato libero questa mattina. Ma non è così. Il fulcro del provvedimento riguarda, infatti, la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza: secondo il giudice, Pranto Hawlader sarebbe l’autore dell’omicidio del giovane aiuto cuoco gambiano di 17 anni, Alagie Sabally.
Nella parte conclusiva dell’ordinanza di cinque pagine, il Gip mette nero su bianco valutazioni nette anche sul
La strategia difensiva
La difesa di Hawlader, rappresentata dall’avvocato Paolo Di Furia, sembra puntare su una strategia processuale tesa a ottenere l’assoluzione attraverso il riconoscimento della legittima difesa.
Le dichiarazioni di Emanuela Adinolfi e della madre Maria Grazia Merola
Il Gip parte dal racconto dei testimoni. Emanuela Adinolfi avrebbe riferito di essere entrata in cucina insieme alla madre, Maria Grazia Merola. Non è chiaro se lo abbiano fatto per un’attività di routine o attirate dalle urla. Sempre secondo Emanuela, le due donne hanno cercato di separare i due giovani impegnati in una violenta colluttazione, ma senza riuscirci. A un certo punto – dettaglio cruciale secondo il Gip – Emanuela avrebbe visto il cuoco afferrare un paio di forbici poggiate su un’alzatina della cucina. Nonostante ciò, il tentativo di separazione sarebbe continuato, al punto che Emanuela stessa è stata colpita con le forbici, riportando una ferita.
Non è chiaro – e questo è un nostro rilievo – se la ferita sia stata causata intenzionalmente o accidentalmente durante la colluttazione. Resta comunque significativo il fatto che, dopo la separazione dei due, Emanuela abbia visto, nonostante lo spavento per la propria ferita, Hawlader accasciarsi nella zona lavaggio, mentre Sabally si trovava in un’altra posizione. La donna ha dichiarato di non aver visto il momento esatto in cui le forbici sono state usate per infliggere le ferite, né ha visto qualcuno riporre l’arma nel lavandino.
La versione del titolare Andrea Adinolfi
Il Gip definisce “parzialmente diversa” la versione di Andrea Adinolfi, titolare del locale. Agli inquirenti ha detto di essere intervenuto dopo aver sentito le urla della figlia. Ha raccontato di aver diviso i due giovani che si azzuffavano all’ingresso della cucina, spingendoli in direzioni opposte: Hawlader verso l’interno, Sabally verso l’esterno. Specifica che, al momento dell’intervento, nessuno dei due aveva in mano forbici o altre armi.
Poi c’è un supplemento di conoscenza, forse più autentica, del pensiero del titolare dell’attività commerciale. In un’intercettazione, Adinolfi aggiunge:
“Apro la porta e li trovo tutti e due aggrappati. Li ho divisi, ma non mi ero neanche accorto che questo [Sabally] teneva già le coltellate addosso. Poi è uscito fuori ed è crollato a terra. Allora gli ho strappato la maglietta e ho visto che aveva una coltellata. Le altre non le avevo notate, che poi non sono neanche coltellate: sono tre puntate con la forbice.”
Adinolfi afferma di non aver visto le ferite alla schiena e al braccio, ma solo quella letale al petto.
La prima perizia del medico legale
Il medico legale Daniel Feola, giunto sul posto, ha riscontrato quattro lesioni:
- In regione mammaria sinistra, ferita penetrante nel torace (2,5 cm), margini regolari e distanziati;
- In regione scapolare sinistra, ferita di circa 1 cm;
- e 4. Due ferite nella parte superiore posteriore del braccio sinistro, di circa 1 cm ciascuna, sanguinanti.
Il consulente ha evidenziato che la ferita letale è quella al petto (punto 1), che ha penetrato il torace in zona precordiale, compatibile con lesioni gravi e mortali.
La versione dell’indagato
Rispetto a quanto dichiarato in un primo momento ai Carabinieri, Pranto Hawlader ha cambiato versione, affermando di non aver colpito lui Sabally, ma che le ferite sarebbero state autoinferte durante la colluttazione.
Ha riferito che la lite è nata da una discussione, e che avrebbe afferrato le forbici per difendersi, perché Sabally lo stringeva al collo con una mano e lo colpiva con l’altra. Hawlader ha dichiarato di essersi sentito in pericolo di vita, e di aver tentato di difendersi. Secondo lui, Sabally sarebbe riuscito a strappargli le forbici e, durante la colluttazione, si sarebbe ferito da solo al petto, al braccio e alla schiena.
Ha aggiunto che, nel tentativo di separarli, sarebbero intervenuti Emanuela Adinolfi, Maria Grazia Merola e infine Andrea Adinolfi. In definitiva, l’indagato sostiene di aver agito per legittima difesa.
Le conclusioni del giudice
Per il Gip Vecchiarelli, la tesi della legittima difesa e dell’autoinflizione delle ferite è “macroscopicamente inverosimile” e smentita dal materiale investigativo.
Il giudice dà particolare rilevanza alla testimonianza di Emanuela Adinolfi, che afferma di aver visto il cuoco impugnare le forbici. Quel gesto, secondo il giudice, costituisce già di per sé un indice della volontà di usarle come arma.
Una difesa ben strutturata potrebbe sostenere che l’indagato impugnò le forbici solo per intimorire l’aggressore, ma – viste le caratteristiche della ferita letale – l’ipotesi dell’omicidio appare più convincente. Resta da approfondire se si tratti di un gesto volontario o preterintenzionale, ma il reato di omicidio, secondo il Gip, si configura pienamente.
Il giudice valorizza inoltre l’attività investigativa dei Carabinieri, considerandola logica, coerente e sufficiente a motivare la misura cautelare.
La parte finale dell’ordinanza è dedicata alla pericolosità sociale dell’indagato, ritenuta elevata:
“Dallo svolgimento dei fatti emerge con evidenza la negativa personalità dell’indagato, soggetto senz’altro pericoloso che denota una indole a dir poco spietata.”
La sua condotta è definita “impulsiva e violenta”, un profilo che esclude ogni misura alternativa al carcere.