SANDOKAN VUOLE PENTIRSI: “Fatemi collaborare con la giustizia”. Ma chi rischia davvero con le parole del boss?
30 Aprile 2025 - 20:20

CASAL DI PRINCIPE – Francesco Schiavone, alias Sandokan, boss fondatore del clan dei Casalesi, torna a far parlare di sé.
Durante un’udienza a Napoli, dove è imputato insieme al pentito Giuseppe Pagano per un triplice omicidio risalente al 1983, ha espresso la volontà di riprendere il percorso di collaborazione con la giustizia.
L’estate scorsa era emersa la notizia della sua collaborazione con la giustizia, poi interrotta dopo poche settimane.
Su CasertaCe, raccontando la notizia, ci soffermammo sulle possibilità che Sandokan potesse rivelare informazioni nuove, mai conosciute agli inquirenti.
Per noi questa ipotesi è parsa remota ed evidentemente anche alla procura di Napoli, guidata da Nicola Gratteri, che ha interrotto il percorso di collaborazione poco dopo, viste le dichiarazioni frammentarie e poco utili del boss, ad esempio sull’argomento Terra dei Fuochi.
PENTIMENTO UTILE?
Il motivo è da rintracciarsi soprattutto nel fatto che da 27 anni, dal luglio 1998, Sandokan è chiuso in una cella di massima sicurezza, al 41 bis.
Il boss, tra latitanza e carcere duro, ha sicuramente delegato i rapporti con la pubblica amministrazione a persone a lui vicine. E allora saranno i suoi fiduciari, l’elenco di questi soggetti a poter trovarsi in seria difficoltà se dovesse davvero parlare. Sarebbe necessario un pentimento a catena: Sandokan davanti e fiduciari dietro.
A nostro avviso, avevano maggiore importanza le parole di Nicola Schiavone, il “delfino”, il figlio del boss che, dopo aver comandato la fazione di famiglia, si è pentito a seguito del suo arresto avvenuto nel 2010, oltre un decennio successivo all’arresto del padre.
Come poteva Sandokan conoscere le trame criminali del clan dal 1998 a seguire? Poteva leggere i giornali locali, le cui copie venivano acquistate e consegnate al boss, recluso al 41 bis, ma mancherebbero, a questo punto, i segnali di ritorno di Schiavone verso gli uomini della sua fazione.
E, quindi, restano due ipotesi. Storicamente, è avvenuto che avvocati di importanti boss operassero quel comportamento da “piglia e porta”, ovvero facessero da tramite, da messaggero tra il capoclan recluso e gli uomini fuori al carcere. Qualche parolina, quindi, qualche opinione, una chiacchierata tra il suo legale difensore e Sandokan poi resa nota all’esterno della stanza? Al momento non c’è alcuna prova a sostegno di questa teoria e, quindi, riteniamo di poterla escludere.
Allora restano “i segni della briscola”, ovvero messaggi subliminali, verbali o fisici, che Sandokan si sarebbe scambiato in maniera criptata davanti alle telecamere della polizia penitenziaria durante i colloqui con i parenti, sempre controllati per chi vive in regime di 41 bis.
LE DICHIARAZIONI
Nel corso del processo tenuto nei giorni scorsi, Sandokan ha chiesto di essere ascoltato in qualità di imputato, cosa mai avvenuta in passato.
Ma la Corte ha respinto la richiesta, spiegando che non aveva un avvocato di fiducia. Gli è stato però concesso di rilasciare dichiarazioni spontanee. Parole confuse, a tratti frammentarie, ma che contengono un dato di fatto nuovo: per la prima volta, Schiavone ha ammesso di aver avuto un ruolo in un delitto.
Il riferimento è all’agguato costato la vita a Luigi Cantiello e ai fratelli Nicola e Luigi Diana. Sandokan ha anche detto che Pagano si sarebbe autoaccusato ingiustamente. Un ribaltamento totale rispetto al passato, visto che in primo grado si era dichiarato innocente. Ora, il sostituto procuratore generale ha chiesto la conferma dell’ergastolo per Schiavone, condanna già inflitta con rito abbreviato.