ANATOMIA DI UN’ORDINANZA. E’ stata rivolta, atto eversivo ma non dei detenuti, ma di un apparato dello Stato. Pubblichiamo un’altra cascata di nomi e vi spieghiamo perchè è vicenda enorme

2 Luglio 2021 - 13:41

I capi 1 e 2 sono quelli che definiscono le coordinate principali, fondamentali dell’intera indagine svolta dalla Procura della Repubblica di Santa Maria. I reati contestati sono quelli di abuso di autorità su detenuti e perquisizione arbitraria. Circa 150 altri agenti partecipanti al pestaggio non sono stati ancora identificati. Violate una serie impressionanti di leggi. Siamo sempre stati affianco dei baschi azzurri che hanno tante ragioni nel protestare. Ma questa è un’altra roba, questo mette in difficoltà tutti coloro che li hanno sempre difesi

 

SANTA MARIA CAPUA VETERE(g.g.) La struttura portante della ordinanza emessa dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere e firmata da uno dei gip più esperti di questo ufficio, cioè Sergio Enea, è rappresentata dai primi due capi di imputazione provvisori. Lì c’è il nucleo fondante di tutte quante le altre accuse, visto che queste derivano dal disegno iniziale, legato ad una sorta di rivolta che, badate bene, non è quella attuata dai detenuti il giorno 5 aprile 2020, subito dopo la trasmissione del Tg Campania, che dava notizia della positività di uno di loro, ma è quella degli agenti della polizia penitenziaria.

Sì, è proprio così: si deve chiamare rivolta la più grande operazione di violazione del codice penale e delle leggi che regolano il regime carcerario, mai avvenuta in Italia.

Per carità, si sa bene che i penitenziari, anche quelli italiani, non costituiscono una palestra del fair play, dei modi gentili. Da sempre, vengono segnalati atti non certo edificanti che detenuti compiono contro gli agenti e che questi compiono contro i detenuti. Episodi fuori legge che però rimangono circoscritti, riguardando di solito l’attitudine personale di quel determinato detenuto, di quel particolare agente della penitenziaria che pagano dazio, negli errori compiuti, ai propri caratteri personali, non certo adeguati, per quanto riguarda il detenuto, al rispetto del regime carcerario, del rispetto delle norme di garanzia sui sistemi di vita di chi sconta una pena o è lì dentro per motivi cautelari, per quanto riguarda gli agenti.

Ma mai si era vista in Italia una cosa del genere, cioè lo scatenarsi di un meccanismo in cui la struttura di comando dei penitenziari campani che si condensa nella figura del Provveditore regionale, diretta emanazione del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, meglio conosciuto come Dap, propaggine diretta del ministero della giustizia, diventa quantomeno complice, dimostrando una sudditanza del potere amministrativo rispetto a quello di polizia, di controllo e di presidio che stravolge totalmente l’impianto su cui si basano i comunque difficili processi di convivenza, all’interno delle strutture di pena.

Perchè leggendo il capo 1 e il capo 2 che contestano due reati, quello regolato dall’articolo 609 del codice penale (perquisizione arbitraria) e quello regolato dall’articolo 608 (abuso di autorità contro detenuti), si capisce che almeno nella ricostruzione del gip, almeno in quello che è il contenuto di ciò che il giudice considera validamente presentato dall’autorità inquirente, cioè dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, lì non c’è stata una reazione emotiva, una violenta risposta a presunte attività di gravi violazioni di leggi compiute dai detenuti, attivata da un meccanismo di impeto che porta spesso l’uomo a sbagliare in tutti i campi, in tutti i settori della vita; lì c’è stata una pianificazione che si legge, almeno stando a ciò che ricostruisce la procura, prima di tutto, nello sfalsamento temporale avvenuto nelle 24 ore che separano quella che è stata definitiva rivolta dei detenuti, finalizzata ad ottenere immediatamente dispositivi di protezione, leggi mascherine (5 aprile) e l’intervento (6 aprile), operato “in grande stile” dagli agenti, impiegati in ben 283 loro effettivi tra personale interno della penitenziaria e con 144 unità del il nucleo speciale chiamato “Gruppo di supporto agli interventi” che si muove all’occorrenza tra i tutti i penitenziari della Campania e che, non a caso, è alle dirette dipendenze, anche da un punto di vista operativo e non solo amministrativo, del Provveditore, nel caso specifico di Antonio Fullone.

Per cui, se questo reparto speciale che entra in azione quando ci sono casi di grande emergenza, quando c’è il rischio che nelle carceri si scateni realmente qualcosa di molto grave, è intervenuto, l’ha potuto fare solo perchè Fullone, cioè il Provveditore che agisce in nome e per conto del Dap e del ministero di Grazia e Giustizia, lo ha pienamente autorizzato anche in quelle che dovevano essere le modalità con cui questo blitz si sarebbe poi espresso. E qui, come potrete leggere dai capi 1 e 2 che pubblichiamo integralmente in calce a questo articolo, sono state consumate delle illegalità che potremmo definire accessorie ai due reati: il direttore del carcere è stato completamente esautorato.

Stesso discorso per il Prefetto che è l’unica autorità, discendendo direttamente dal ministero degli interni e dal governo, cioè dalle strutture che nel governo hanno piena potestà in termini di sicurezza ed ordine pubblico, a poter dire se occorrevano 100 oppure un numero diverso di componenti del reparto speciale. Perchè 100 è il massimo consentito dalla legge nell’esplicazione di potestà da parte del Provveditore.

E ancora, le donne in servizio, entrate nelle celle o che comunque hanno partecipato alle perquisizioni dei detenuti maschi, non l’avrebbero potuto fare. Perchè questo lo vieta espressamente la legge. Indubbiamente, alcune di loro, cioè Anna Rita Costanzo, Tiziana Perillo e Nunzia Di Donato, avevano ruoli importanti, due comandanti e un commissario capo.

Ma per motivi facilmente comprensibili, il personale femminile perquisisce le donne, il personale maschile perquisisce i maschi. Non a caso, uno dei testimoni chiave di questa vicenda, il detenuto M.R.D.L. conferma di aver vissuto con grandissima vergogna ed imbarazzo la presunta perquisizione, preceduta da una serie di flessioni e attuata dopo essere stato costretto a denudarsi, proprio al cospetto di due donne in servizio.

Tra capo 1 e capo 2 la differenza è costituita dai livelli di responsabilità. Il reato di perquisizione arbitraria è contestato a Fullone, rimasto però a piede libero, a Gaetano Manganelli e a Pasquale Colucci, cioè al capo del “Gruppo Supporto agli interventi” che la procura considera un vero e proprio protagonista della pianificazione ma anche dell’esecuzione materiale delle presunte sevizie e dei presunti pestaggi e di tutto ciò che è successo in quel maledetto 6 aprile, tra il reparto Nilo e il reparto Danubio, dove colonne di detenuti sono stati portati per essere oggetto di ogni tipo di angheria.

Il secondo gruppo è costituito da ben 134 nomi. Dunque, ci sono anche persone che sono rimaste a piede libero pur essendo pesantemente indagate. Per loro, il reato contestato è quello di abuso di autorità contro detenuti ed arrestati. Nel capo 2 sono riassunti tutti quanti i comportamenti agghiaccianti.

Però noi, in conclusione di questo articolo, seconda puntata di un focus che si preannuncia molto lungo, vogliamo tornare al concetto iniziale: questa è stata una rivolta degli agenti di polizia penitenziaria, alla quale l’amministrazione non si è opposta, avallandola invece anche da un punto di vista esecutivo. Dalle intercettazioni risulta che la pianificazione di un atto, ripetiamo, che non ha precedenti nella storia italiana, abbia ricevuto anche una copertura, diciamo così, ideologica: “Era il minimo segnale per riprendersi l’istituto…il personale aveva bisogno di un segnale forte e ho proceduto così“.

Qui siamo fuori dallo stato di diritto. Se il personale, inteso come centinaia e centinaia di uomini e di donne che indossano una divisa e rappresentano lo Stato, hanno bisogno di trovare, al di fuori dello stato di diritto, strumenti per realizzare pienamente il proprio piano professionale, se lo fanno poi tutti insieme, in tanti, in tantissimi, visto e considerato che la procura riconosce di non aver individuato, di non aver identificato tutti quelli che hanno partecipato, limitandosi solamente ad esporre nella richiesta di applicazione di misure cautelari il numero di 283, ci troviamo di fronte ad una cosa che dobbiamo chiamare col suo nome: una rivolta finalizzata a realizzare un colpo di mano, rispetto allo Stato di diritto.

Perchè, come abbiamo scritto l’altro giorno da liberali con la scorza dura quali ci riteniamo, un agente di polizia penitenziaria può sentirsi vessato, stressato, può essere legittimamente scontento di come sia trattato dal suo datore di lavoro, cioè dalla repubblica italiana, può essere amareggiato per lo stipendio che guadagna a fronte delle difficoltà oggettive ed obiettive del proprio lavoro, però non può, non deve neppure pensare di trovare delle soluzioni fuori dallo Stato di diritto, fuori dalla legge di cui lui è punta avanzata quale struttura dello stato che quella legge deve far rispettare. Se 283 persone, con importanti dirigenti, con un Provveditore regionale, entrano in un carcere, cioè in una struttura materiale di proprietà dello Stato e affermano il loro regime chiaramente differente rispetto a quello stabilito dalla legge, questo è un atto eversivo, c’è poco da dire.

Ovviamente, il fatto di Santa Maria Capua Vetere fa esplodere quello che era un ordigno innescato da anni e anni, ma questa è un’altra storia. Per il momento, bisogna star concentrati su quello che è successo.

 

QUI SOTTO LO STRALCIO DELL’ORDINANZA