LEGA in Campania al microscopio. Perché Salvini se non riconosce il primato del consenso nei territori rischia la catastrofe alle prossime elezioni politiche. I pregi e i difetti di Grant

10 Febbraio 2022 - 18:00

I risultati delle elezioni comunali dell’ottobre scorso sono eloquenti sull’assoluta inconsistenza degli apparati organizzativi, dell’elaborazione politica in un partito che oggi non può contare più sul Salvini-totem. Uniche isole felici, Afragola con Pina Castiello e Caserta con Gianpiero Zinzi

 

 

CASERTA (Gianluigi Guarino) – Uno dei contenuti affrontati da chi parla di politica cercando di guardare un po’ al di là del proprio naso, si sviluppa attraverso la declinazione della seguente domanda: qual è la differenza tra un tempo in cui fattori ausiliari della democrazia, cioè la selezione della sua classe dirigente, le dinamiche della sua organizzazione interna, elementi entrambi modellati sul dettato costituzionale, e un altro tempo pure riguardante la vita dello stesso partito in cui tali fattori diventano, al contrario, irrilevanti, neutri e, in sostanza, non incidenti sulle ragioni del successo o dell’insuccesso di quel soggetto politico, soprattutto in proiezione elettorale?

Il quesito riguarda, bene o male, il 90% dei partiti e dei movimenti che affollano la scena politica italiana. Se si eccettua, infatti, il Pd nel quale una mozione, presentata nell’assemblea nazionale o anche locale, può, bene o male, spedire a casa un segretario, diverso è il discorso per il resto della compagnia.

I PARTITI (FINTI) DEI LEADER E QUELLI “NORMALI”

– Per esempio, cosa sarebbe Forza Italia senza Silvio Berlusconi? Il responso, a nostro avviso largamente scontato, arriverà quando Berlusconi uscirà di scena. Probabilmente un bel po’ di tempo in più bisognerà attendere per capire cosa sarà Italia Viva senza Matteo Renzi. E “Azione” senza Carlo Calenda, il quale non a caso, ha in pratica assorbito, ultimamente, “Più Europa”, movimento che si sentiva già spacciato proprio perché il suo unico leader carismatico, cioè Emma Bonino, se n’era andata sbattendo la porta. E ancora, cosa sarebbe Fratelli d’Italia senza la sua fondatrice Giorgia Meloni? Qualcuno potrebbe obiettare che Forza Italia ha avuto una storia durante la quale l’azione politica si è sviluppata nell’intero territorio nazionale, con quadri dirigenti solidamente strutturati. Attenzione, però: questa apparente struttura protagonistica dei livelli locali, che ha dato la sensazione di una elaborazione politica dal basso, si è formata in maniera tanto capillare ed estesa, non già per effetto di un processo democratico, ma attraverso mere cooptazioni blindate dal portafogli, non certo comune, del fondatore.

IL CASO DELLA LEGA – Sulla Lega va fatto un discorso diverso in quanto, questo partito, ha rappresentato, e rappresenta, una via di mezzo tra le due modalità, tra quella confusa e confusionaria, ma sostanzialmente democratica, rappresentata dal PD e quella integralmente leaderista che in pratica fa, dei procedimenti statutari, un mero fatto formale. Una roba che somiglia un po’ a quelle elezioni che venivano fatte nei Paesi del Socialismo reale, o in altre nazioni governate da dittature, e che, ineluttabilmente, terminavano con un bel 99% dei voti attribuiti al partito unico, al punto che da queste prassi nacque il modo di dire “consenso bulgaro”.

Parliamoci chiaro: se Umberto Bossi non avesse avuto i gravi problemi di salute effettivamente attraversati e che gli hanno letteralmente impedito di continuare a svolgere la politica attiva, oggi il “Senatur” sarebbe ancora il leader indiscusso, in forza di una primazia, sigillata dalla sua veste di primo fondatore, di primo costitutore. Dopo Bossi, impedito, come detto, per problemi di salute, conseguenza, a quanto si disse all’epoca, di una notte di fuoco con quella che era una nota cantante-soubrette italiana, quanti altri leader ha avuto la Lega? Sempre più in difficoltà per motivi fisici, Bossi ha cercato di mantenere comunque il pallino affidandosi al suo fedelissimo Bobo Maroni, che ha guidato il partito in nome e per conto. Dunque, realmente, dopo Bossi la Lega ha avuto un solo vero leader, cioè Matteo Salvini.

SALVINI SEGRETARIO O LEADER INAMOVIBILE? – Siccome in questo articolo ci piace formulare a noi stessi e ai nostri lettori delle domande, eccone subito un’altra: riusciremo mai a capire se la longevità di Matteo Salvini, quale leader del Carroccio, ormai quasi decennale (per la precisione è stato eletto nel Dicembre 2013), sia legata al fatto di aver portato questo partito dal 3,5% del 2012 al 17% delle ultime elezioni politiche e poi al 30% delle elezioni europee o se, al contrario, acquisirà lui stesso le stimmate del fondatore inamovibile, di regnante, fino a quando gli parrà e gli piacerà? A questa domanda non sappiamo rispondere. Non perché ci manchino gli strumenti logici e le conoscenze storiche per farlo, ma proprio perché la Lega è, ripetiamo, un ibrido che si colloca giusto in mezzo tra la categoria dei “partiti dei leader”, destinati a non sopravvivere ai medesimi, e quella a cui appartengono i partiti che sviluppano se stessi attraverso aggregazioni democraticamente costituite e consolidate che esplicano quelli che, comunemente, vengono definiti “processo dal basso”.

Questo limite cognitivo non ci impedisce, però, al contrario, costituisce per noi un incentivo per svolgere un nostro breve ragionamento, che si colloca nel perimetro della contingenza e non in quello, più ampio e generale, dell’identità.

Quando si parla del contingente, si considerano, giocoforza, le categorie della concretezza. E quale ragionamento più concreto ci può essere se non quello relativo alle stive, ai bottini, elettorali ai consensi raccolti nelle varie elezioni, a quelli che l’antico patriarca della democrazia cristiana casertana e matesina, Dante Cappello, definiva “li voti” quelli che occorrevano, allora come oggi, per essere determinanti nei processi di governo oppure, più prosaicamente, per esercitare il potere.

Come abbiamo scritto prima, Matteo Salvini ha raccolto, nel Dicembre 2013, un partito moribondo che valeva a malapena il 4%, e uno zero percento al Sud, dato sacramentato dalle elezioni politiche svoltesi 10 mesi prima, nel Febbraio dello stesso anno. L’attività del segretario ha prodotto, dal momento del suo avvento in poi, un costante aumento del consenso, fino ad arrivare alle elezioni politiche del Marzo 2018, quando la Lega si è attestata ad una cifra superiore al 17%. In pratica, più del quadruplo dei voti raccolti cinque anni prima. L’onda lunga è proseguita, poi, come spesso è capitato in Italia anche rispetto alla parabola di altri leader, fino alle elezioni europee del 2019, quelle in cui la Lega è arrivata a toccare quota 30% con numeri record anche nelle regioni dell’Italia meridionale.

ANALOGIE E IL VIZIO CRONICO DEGLI ITALIANS – Andando un po’ indietro nel tempo, quando Matteo Renzi, superato l’empasse dei numeri parlamentari grazie ai voti di Angelino Alfano e di Denis Verdini, conquistò la presidenza del consiglio, issò il Partito Democratico al 30% in occasione delle elezioni europee del 2014 che seguivano le politiche del 2013, quando, però, l’allora segretario Bersani non aveva ottenuto un risultato tale da permettere al PD una incontestata titolarità a esprimere la premiership, al punto che il nome di Enrico Letta, sabotato un giorno sì e l’altro pure proprio da Renzi (“Enrico, stai sereno”), uscì fuori da un compromesso con Forza Italia, con Silvio Berlusconi, e con Gianni Letta, che di Enrico Letta è lo zio.

Salvini e Renzi: il loro successi elettorali, riportato alle elezioni del 2014 e a quelle del 2019, possiedono un tratto importante di analogia. Quei voti arrivano perché c’è un leader capace di mobilitare il consenso della propria area politica, ma anche quello degli agnostici, ma soprattutto che riesce a smobilitare il consenso degli altri partiti. Quel 30% non apparteneva tanto alla Lega, ma era soprattutto farina del sacco di Matteo Salvini, esattamente come 5 anni prima il 30% del PD, risultato mai raggiunto nella storia seppur breve di questo partito, apparteneva soprattutto a Matteo Renzi.

Ma l’Italia, si sa, è volubile, umbratile. Ma è soprattutto ipocrita, pusillanime. Quando porta in cielo un leader, lo fa nel momento in cui condanna altri leader e altre opzioni elettorali attraversate, incrociate e premiate in passato. È come una sorta di gioco infido, crudele: il popolo ti affida, quasi plebiscitariamente, la guida del Paese, comportandosi come in una repubblica presidenziale di fatto, salvo poi, siccome il Paese non funziona proprio a causa della scarsa cultura, dello scarso senso civico, dello scarso senso delle istituzioni del medesimo popolo, questo, cioè gli italians, essendo tali, cioè italians, si autoassolvono continuamente prendendo a calci nel sedere il leader che fino a un anno prima avevano innalzato agli altari. Della serie, altro giro altra corsa. L’ultimo esempio della serie: viva Beppe Grillo, e già oggi Beppe Grillo è un coglione vituperato dai milioni e milioni di nostri connazionali che l’hanno votato nel 2018.

IL TEMPO NUOVO DI SALVINI E DELLA LEGA: IL CAMBIO DI STRATEGIA – È importante, allora, comprendere, oggi, se Matteo Salvini sia consapevole di questo tempo nuovo e del fatto che lui, personalmente, non è più in grado di garantire un surplus, un valore aggiunto elettorale, proprio perché è passato di moda esattamente come sono passati di moda Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Giuseppe Conte, Beppe Grillo e compagnia. Basta guardare i sondaggi e si capisce che oggi, il personaggio virale, che tira, si chiama Giorgia Meloni. Che, però, viene dalla vecchia politica, viene dal Fronte della Gioventù, dal MSI, ed è largamente più intelligente di Gianfranco Fini, e dunque si può ritenere che abbia già guardato avanti di qualche anno, cioè al tempo in cui, dopo essere magari andata lei stessa al governo, diventerà, ineluttabilmente, il nuovo alibi degli italiani, e dunque la donna più stupida del mondo.

LE ELEZIONI COMUNALI DI CASERTA E DI AFRAGOLA – E veniamo a noi, cioè alle vicende delle nostre contrade. Le elezioni comunali dello scorso Ottobre, hanno prodotto a Caserta, in Campania e, in generale, in tutta l’Italia Meridionale, un esito che va letto al di là dei numeri dell’urna. Nel 2021, prendiamo l’esempio di Caserta, perché è quello di cui possiamo parlare con maggiore cognizione di causa. Tutti quelli che nel 2019 avevano messo il segno, senza farsi troppi problemi e senza turarsi il naso, sul disegno di Alberto da Giussano, quello che il grande Checco Zalone scambia per un Pokemon in uno dei suo film, diventano tutti cultori e testimoni dei diritti umani, diventano tutti avversari della rivalsa meridionale contro il razzismo leghista, come se i casertani che nel 2019 hanno votato per Salvini e per la Lega, fossero planati nel seggio elettorale provenendo dal pianeta Marte, e dunque, ignorando quello che la Lega aveva fatto e detto sin dai tempi della fondazione delle sue prime strutture territoriali, cioè sin dal 1989, quando Umberto Bossi entrò in senato per la prima volta sotto l’insegna della Lega Lombarda. Per cui, nell’ultima campagna elettorale, giovandosi poi dell’ondata di tangentopoli, all’indomani delle elezioni politiche del 1992 che comunque ne avevano già segnato un’avanzata visto che si svolsero nell’Aprile di quell’anno, cioè a due mesi di distanza dall’arresto di Mario Chiesa, dall’esplosione dello scandalo delle tangenti al Pio Albergo Trivulsio, cioè all’inaugurazione della bufera giudiziaria di Mani Pulite.

Oggi, anzi, per la precisione, nell’Ottobre 2021, a due anni e dunque non a due secoli di distanza dalle europee in cui votano, attenzione, non per il democristiano Gianpiero Zinzi, ma per il milanese e milanista, leghista nel sangue e nel cuore Matteo Salvini, i casertani offrono a Carlo Marino la comodità di spostare tutto il dibattito (si fa per dire) sull’appartenenza di Gianpiero Zinzi alla Lega, mettendo fuori dalla vicenda tutte le turpitudini compiute da lui, dai dirigenti, nei confronti di una città disamministrata e moralmente impresentabile.

L’esito di quelle elezioni comunali, rappresenta una modalità utile, utilissima all’osservatore per dare un peso, per elaborare una valutazione non emotiva del grado di intelligenza politica di Matteo Salvini. Essendosi spuntata, depotenziata, indebolita l’arma comiziale, quella della chiamata alle armi contro gli immigrati, esaurito il bonus che gli ha permesse di entrare fino alle elezioni europee del 2019, nella testa degli italiani con un solo slogan, con semplici e sommarie parole d’ordine, saprà ora Matteo Salvini, ci risiamo con le domande, adeguarsi alle necessità nuove di un partito che per continuare a contare e per esistere nel sud, in Campania e a Caserta, è condannato a rendersi realmente visibile da un punto di vista politico, a scendere nelle piazze, testimoniando i valori in cui crede? Saprà comunicare efficacemente le sue serie e, in larga parte condivisibili argomentazioni, a partire da quelle relative alla battaglia sulle rapine fiscali, sulle tasse folli a cui tutti gli italiani devono sottostare, ma che costituiscono il motivo fondamentale per il quale l’economia meridionale, quella che potrebbe trovare nelle partite iva un propulsore importante, non è cresciuta fino ad ora ed è destinata a sicuramente a non crescere?

Non basterà, a quest’ultimo, un post o un video su Facebook. Non basterà una o più comparsate televisive. Occorrerà sporcarsi le mani, nel senso di metterle nella nuda terra del lavoro, dell’impegno e dell’attività testimoniale. Per fare questo, occorrerà mettere in campo un’organizzazione attribuendo concreto protagonismo politico a chi, sul territorio, ha già dimostrato di godere di una credibilità personale, o, comunque, di essere in grado di mobilitare il consenso. Lo schema attuale, che poteva andare bene al tempo in cui Salvini non aveva bisogno, al sud, ma, in verità, neppure al nord, di quadri intermedi, di rappresentanti territoriali distinguibili, è destinato ad applicare una debolezza della rappresentanza territoriale, già esistente ab origine, andata bene a Salvini nel periodo in cui lui “vedeva e provvedeva”, ad un’altra debolezza, stavolta sopravvenuta, frutto di quella della volubilità, dell’umbratilità degli italians di cui abbiamo scritto prima, ma soprattutto della necessità del popolo dello Stivale di autoassolversi, scaricando sempre su qualcuno la colpa delle cose che, immancabilmente, vanno male nel paese, creando una condizione simmetricamente contraria a ciò che John Fitzgerald Kennedy, per combattere questa forma di demagogia delle masse, affermò con la famosa frase non chiederti, non preoccuparti di ciò che il Presidente può fare per te, ma chiediti, cioè preoccupati, di ciò che puoi fare per il tuo Paese.

ORA FACCIAMO I NOMI DEI POLITICI CAMPANI – Prima di citare qualche nome di politici campani, abbiamo voluto svolgere questo ragionamento, che affidiamo all’attenzione di chi magari parla, pensa o rumina politica, cercando di dare uno sguardo verso orizzonti meno angusti della pratica politicante quotidiana. Questo nostro lungo scritto rappresenta, infatti, una garanzia personale posta a favore di chi andiamo a nominare, proprio perché l’elemento anagrafico, onomastico, finisce per diventare, alla luce di queste nostre riflessioni, un fatto del tutto irrilevante.

Valentino Grant, attuale segretario regionale della Lega, in Campania, è uno stimabile manager. Ha presieduto per anni la BCC Terra di Lavoro, conseguendo buoni risultati. Salvini, insieme all’altro esponente di spicco del Carroccio, Raffaele Volpi, lo risarcirono della mancata candidatura alle elezioni politiche del 2018, quando Grant chiedeva di essere inserito in una lista bloccata in una regione diversa dalla Campania, in modo da evitare il problema dell’incompatibilità con il suo ruolo di Presidente della banca, attribuendogli l’onore e l’onere di rappresentare la Lega nel consiglio di amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti. Una nomina assolutamente giustificabile. Congrua rispetto alle competenze e al vissuto professionale di Valentino Grant. Come comprensibile e politicamente legittima è stata anche la candidatura del medesimo alle ultime elezioni europee, quelle del 30%, che gli hanno consentito, grazie al sostegno compatto di molti esponenti di spicco del Partito di Salvini in Puglia, Calabria, e nelle altre regioni comprese nella circoscrizione Sud, di conquistare un seggio al Parlamento di Strasburgo e Bruxelles.

Anche lì, infatti, Grant può mettere a disposizione del suo partito, e in più generale nelle istituzioni dell’Unione, le competenze derivanti dalla sua professione. Quello che invece non convince, è la decisione di affidargli la guida politica del partito in Campania. Questo non deve suonare come un rimprovero o come una condanna nei confronti di Grant. E ci mancherebbe pure che una persona con tante doti qual è lui, fosse tanto geniale e tanto dotato da riuscire a spaziare, indifferentemente, dalle trame economiche, che si sviluppano come tema fondamentale della vita del Parlamento Europeo, fino ad arrivare all’abilità di un Tarzan che si districa agevolmente nella giungla napoletan-campana.

D’altronde, se si eccettua un evento, puramente figurativo, celebrato dopo le elezioni comunali dell’Ottobre scorso, quando alla Stazione Marittima fu mobilitato qualche sindaco, qualche amministratore della Lega, con tanto di truppe cammellate al seguito allo scopo di riempire la sala, la Lega in Campania è una grande assente, forse, la grande assente della politica regionale.

Lega non pervenuta, dunque. Gianpiero Zinzi svolge il suo lavoro da consigliere regionale di opposizione e da consigliere comunale di minoranza a Caserta, ma ovviamente si tiene lontano dalle decisioni politiche, che, giustamente, non gli competono. Stesso discorso per la parlamentare ex sottosegretaria del consiglio dei ministri, con delega al mezzogiorno, Pina Castiello. Ma Zinzi e la Castiello, che se si chiamassero Signor Verdi e Signora Rossi sarebbe esattamente la stessa cosa, sono gli unici ad aver salvato il bilancio elettorale della Lega in Campania alle ultime comunali. Il primo, sfiorando la vittoria contro Carlo Marino e contro tutto ciò, di confessabile e, soprattutto, di inconfessabile, che questi ha mobilitato in campagna elettorale, la seconda, addirittura, vincendo le elezioni comunali in quel di Afragola. In entrambi i casi, le liste ispirate alla posizione della Lega, hanno ottenuto buoni risultati ed espresso delle rappresentanze nei consigli comunali.

SALVINI E IL RISCHIO DI UNA DISFATTA ELETTORALE IN CAMPANIA ALLE PROSSIME POLITICHE – Alle prossime elezioni politiche manca un anno. Se Salvini mantiene lo status quo, se Salvini continua a pretendere da Valentino Grant un tipo di azione che non è nelle corde, nelle competenze, nel modo di essere di Grant, vuol dire che non ha fatto tesoro della lezione avuta alle ultime consultazioni amministrative, ad epilogo delle quali gli unici a realizzare buoni risultati, sono stati, per l’appunto, Pina Castiello ad Afragola e Gianpiero Zinzi a Caserta.

Noi di CasertaCe non possiamo certamente essere tacciati di una partigianeria favorevole alle ragioni della deputata napoletana. In più occasioni, infatti, abbiamo espresso forti e aspre critiche nei suoi confronti. Ma siccome noi lottiamo ogni giorno per conservare intatta l’unica ricchezza che riteniamo di avere, cioè l’onestà intellettuale, non è che di fronte a dati oggettivi (perché i numeri sono numeri e la matematica non è un’opinione) possiamo dire che non è così perché magari Grant ci sta simpatico e, al contrario, ci sta antipatica la Castiello.

La Lega, per sostenere il proprio consenso, per far capire ai piccoli imprenditori del sud, alle partite iva, che rappresentano una realtà molto più cospicua di quanto lasci immaginare la vulgata sui fannulloni e sui “postifissi”, sui Forestali della Sicilia, ha bisogno di azione, organizzazione, attività e, dunque, di capacità di mobilitazione. E queste sono caratteristiche possedute da chi ha dimostrato di essere radicato nel territorio e di aver risolto questo radicamento con la conquista del consenso democratico.