IL FOCUS. CAMORRA Gaetano Piccolo o’ Ceneraiuolo non deve uscire mai dal carcere e su questo ok. Gaetano Piccolo al 41Bis dopo 15 anni e questo non è ok con due Tribunali che dicono il contrario l’uno dell’altro
2 Settembre 2022 - 21:31
La decisione dei giudici romani non focalizza bene, secondo noi, gli elementi specifici di più approfondita classificazione dei requisiti, che differenziano la prima applicazione del carcere duro, dalla proroga o dalle proroghe della stessa. Se poi nella capitale dicono che il clan Belforte è vivo e vegeto e a S. Maria C.V. che l’organizzazione è stata “del tutto azzerata, anche a livello di manovalanza”, allora il povero cittadino non ci capisce un fico secco. In calce all’articolo il passaggio dei giudici sammaritani.
MARCIANISE (g.g.) Non c’è dubbio che Gaetano Piccolo, meglio conosciuto con il suo soprannome di o’ Ceneraiuolo, sia uno tra i peggiori criminali che popolano le carceri italiane. Il suo certificato del casellario giudiziale è lungo chilometri. Già 40 anni fa era un delinquente, come hanno sancito le prime condanne da lui subite, passate puntualmente in giudicato. Successivamente, ha scalato tutte le posizioni all’interno del clan Belforte, a colpi di agguati e di omicidi che l’hanno qualificato come uno dei più efferati killer dell’organizzazione malavitosa. Questo curriculum gli è valso la designazione a reggente all’indomani dell’arresto di Salvatore Belforte, rimasto attivo molto più a lungo di suo fratello “Mimì Mazzacane”, al secolo Domenico Belforte.
L’incipit di questo articolo, se serve ad inquadrare sinteticamente il profilo criminale di Gaetano Piccolo a chi magari non conosce, neppure superficialmente, la materia camorristica, serve in misura minore a ragionare sull’ordinanza con la quale il Tribunale di sorveglianza di Roma, unico organismo competente per i ricorsi contro i provvedimenti amministrativi del Ministero della Giustizia consistenti nella revoca del regime carcerario ordinario e nella successiva instaurazione di un regime carcerario speciale, ai sensi dell’art. 41Bis dell’ordinamento penitenziario, ha rigettato il ricorso, presentato dai difensori di Gaetano Piccolo o’ Ceneraiuolo, gli avvocati Mariano
Abbiamo letto alcuni passi dell’Ordinanza del Tribunale di sorveglianza, a firma del presidente Paola Cappelli e di uno dei giudici di questa particolare sezione del Tribunale capitolino, Luigi Miraglia. Ci siamo resi conto che tutto l’impianto dell’art. 41Bis è diventato struttura, base e, allo stesso tempo, conseguenza del provvedimento di diniego. Diverse pagine e tanti riferimenti normativi che, però, rischiano di far perdere di vista la questione specifica riguardante la posizione di Gaetano Piccolo.
Perché non è certo in discussione il fatto che si tratti di un detenuto pericoloso, non è affatto in discussione che, avendone la possibilità, questi potrebbe, ancora oggi, essere in grado di spedire qualche ordine o qualche messaggio all’esterno e non è certo in discussione neppure che si tratti di un assassino che merita, probabilmente, di rimanere in carcere per tutta la vita.
Ma il punto non è questo: la narrazione del Tribunale di sorveglianza di Roma è indubbiamente suggestiva però non sviluppa la motivazione, posta alla base del diniego, partendo, attraverso una analisi doverosamente selettiiva, dell’unico passaggio dell’art.41Bis applicabile al caso di Gaetano Piccolo o’ Ceneraiuolo.
E vediamolo questo passaggio, contenuto nel comma 2Bis. Per non ingarbugliare la narrazione, precisiamo che si tratta di un passo dell’art. 41Bis, per l’appuntoo il comma 2Bis, che non c’entra nulla con il Bis iniziale, dell’ordinamento penitenziario: “Il provvedimento (la sospensione del regime carcerario ordinario e l’applicazione di quello speciale, ndd) ha durata pari a quattro anni ed è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni. La proroga è disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno, tenuto conto anche del profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, della perdurante operatività del sodalizio criminale, della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, degli esiti del trattamento penitenziario e del tenore di vita dei familiari del sottoposto”.
Dunque, pur non sviluppandosi delle rivoluzioni riguardo ai presupposti dell’applicazione attraverso provvedimento amministrativo, del regime previsto dall’art. 41Bis, risulta chiaro che questo stabilisca una differenza dello status del detenuto tra la realtà con cui la decisione si va a misurare in sede di applicazione del provvidimento originario e quella riguardante le fasi successive, quando lo stesso Ministero dovrà recuperare le informazioni relative allo status di quel detenuto, così come questo è maturato nel corso dei primi quattro anni di applicazione della misura. Dunque, questi requisiti sembrano diventare più esigenti rispetto a quelli utilizzati nel momento in cui si applica per la prima volta la sospensione del regime di carcerazione ordinaria e, conseguentemente, si destina il detenuto ad una misura fortemente afflittiva, che limita pesantissimamente, quasi fino ad annullarla, la sua possibilità di socializzazione, creando una condizione che molto ha fatto discutere anche i giuristi di tutta Europa, alcuni dei quali hanno avanzato dubbi sulla tenuta del 41Bis come norma attiva che non viola principi universali e fondamentali, a partire da quelli riguardanti i cosiddetti diritti dell’uomo.
E d’altronde, il ragionamento sembra di facile declinazione e di altrettanto facile comprensione logica: se io, Stato italiano, ritenendo che tu, detenuto, sia tanto pericoloso, sia tanto dentro al tuo ruolo di criminale incallito da essere pronto a sfruttare ogni momento per relazionare questa tua attitudine e queste tue prassi comportamentali, ti chiudo in un carcere non per una volta, ma per due volte, isolandoti da tutto e da tutti, limitando a due ore al giorno la possibilità di fare quattro passi fuori dalla cella, di intrattenerti con altri detenuti, al carcere duro come te, ma, comunque non in numero superiore a tre, è ovvio che dopo 4 anni, pur non escludendo la possibilità di una proroga, questa debba essere valutata con modalità ancora più profonde e approfondite rispetto a quelle utilizzate al tempo della decisione iniziale. Insomma, il regime speciale va collegato all’esistenza di condizioni specialissime. Perché, inutile girarci intorno, non è che il 41Bis, al di là del giudizio di valore che se ne voglia dare, al di là delle sensibilità culturali che questo giudizio possono determinare, non sia una cosa ragionevolmente approssimabile alla pena di morte, soprattutto quando questo regime viene applicato nei confronti di ergastolani.
Se ci ragionate un po’, al di là del fatto che ognuno di noi possa considerare il Sandokan, il Mimì Mazzacane, il Michele Zagaria o il Ceneraiuolo di turno, meritevoli di subire il castigo del contatto quotidiano con un’alienazione in grado di condurre alla pazzia, non si può ritenere, a meno che non si faccia professione di disonestà intellettuale, che la vita quotidiana di ognuno di questi sia meritevole di essere comunque vissuta, di essere comunque meglio di una morte su un patibolo o su una sedia elettrica.
Tutto ciò per dire che il 41Bis il problema della diversa gradazione di queste condizioni costitutive se l’è posto. Tanto è vero che il comma 2Bis sancisce, come requisito necessario per l’applicazione di proroghe biennali alla prima applicazione quadriennale “la capacità del detenuto di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva che deve trovare necessario riscontro nella posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, ma anche della perdurante operatività del sodalizio criminale”. Se c’è il sodalizio criminale, allora il Ceneraiuolo può essere in grado di avere ancora contatti esterni, dato che possiede il prestigio dei boss per rendere questi contatti pericolosi. Ma se il clan fuori non c’è più, a chi li impartisce questi ordini il Ceneraiuolo?
In effetti, il Tribunale di sorveglianza di Roma afferma che il clan Belforte, “anche se depotenziato, è vivo e vegeto”. Un concetto esposto probabilmente in conseguenza di informazioni assunte dalla Direzione nazionale antimafia.
Ma un tribunale non c’è solo a Roma. Un tribunale c’è anche a Santa Maria Capua Vetere. E soprattutto quando questo si pronuncia attraverso la sezione Misure di prevenzione, occorre tirare giù il cappello, dato che si tratta, a partire dal presidente Massimo Urbano, di magistrati di provatissima esperienza e che da anni e anni producono sentenze, ordinanze, provvedimenti vari, riguardanti l’attività di tutti i clan malavitosi della provincia di Caserta. Con tutto il rispetto per il Tribunale di sorveglianza e per qualche informazione burocraticamente acquisita dallo stesso noi, per quel che conta, consideriamo molto più importante, per formare un nostro punto di vista sull’argomento, ciò che scrive la sezione Misure di prevenzione del Tribunale sammaritano: “Circoscriversi ad una fase storica ormai superata, caratterizzata da situazioni che oggi non esistono più, essendo stata l’organizzazione compeltamente azzerata a tutti i livelli (sic!), anche di semplice manovalanza”.
Noi di Casertace, che dedichiamo ore e ore delle nostre giornate allo studio approfondito, spesso “matto e disperatissimo”, di una miriade di atti giudiziari, sappiamo ben pesare queste due esposizioni, in assoluta antitesi tra di loro. Ma un cittadino che legge la motivazione addotta per respingere il ricorso presentato dai difensori di Gaetano Piccolo contro la quinta o sesta proroga biennale del 41Bis, integrandola poi con la lettura del provvedimento della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di S. Maria C.V., cosa deve pensare,? Che questi siano due Tribunali operanti in nazioni, in Stati diversi? Siccome noi siamo appassionati della materia e, conseguentemente, ci siamo lasciati incuriosire dai più recenti atti prodotti su questa vicenda, ci piacerà capire cosa deciderà la Corte di Cassazione a cui, riteniamo, i difensori di Gaetano Piccolo si rivolgeranno, presentando un ulteriore ricorso, stavolta contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma.