Articolo 21 ancora umiliato. Roberto Saviano fa attaccare a senso unico Guarino a colpi di calunnie. E per la 101esima volta racconto la mia verità sulla vicenda Palmesano, con qualche inedito
17 Settembre 2024 - 01:22
E’ successo ieri sera durante la trasmissione Insider di Rai Tre, tv pubblica in balia di un racconto di regime unico. Come mai, allora, non sono stato mai indagato, inquisito per favoreggiamento? Ve lo spiego per la centounesima volta in un articolo in cui mi soffermo anche sulla telefonata di Francesco Cascella, la prova regina che non provava niente nei processi che lo hanno riguardato, e che ricorda i plagi, riconosciuti dai giudici, compiuti da Roberto Saviano, e la vergogna di un pezzetto della DDA di Napoli al tempo adorante ai suoi piedi, con i reggicoda della cosiddetta intellighenzia giornalistica di sinistra illiberale, antidemocratica che, deliberatamente, non mi ha dato mai possibilità di replicare dopo tutto quello che avevo raccontato davanti a un giudice, forzato in un’ora e mezza di furioso interrogatorio affinché facessi falsa testimonianza, dimostrando i veri motivi per cui Palmesano se n’era andato lui dal Corriere, mettendosi a collaborare ipso facto nel giornale fondato dagli scissionisti andati via dal giornale che dirigevo, e senza mai essere cacciato, con i quali aveva sempre avuto un rapporto simbiotico, visto che da loro era stato portato molto prima che iniziasse la mia direzione
CASERTA (gianluigi guarino) – Vabbè, ormai siamo i racconti di Villa Arzilla. Roberto Saviano spende gli ultimi brandelli della sua immeritata fama, costruita sul plagio di articoli del giornale che poi, come ha detto lui, è fiero di aver sputtanato e che, in realtà, gli consentono, in frazione parassitaria, di campare ormai da una vita, prima, come ha sancito, condannandolo la Cassazione, copiandone gli articoli che danno corpo al best seller più farlocco della storia della saggistica mondiale, ossia la Gomorra del copia e incolla, poi, per arginare la fama declinante e la fame intonsa ed esigente, continuandolo a sputtanare, con la solita canzone che, al confronto, il Tony Dallara, pluri-ottuagenario e reduce da un paio di ictus, torturato dalla Venier che lo costringe al castigo dantesco di cantare “Romantica” tre volte in una puntata, è una botta di vita giovane come una notte da sballo ad Ibiza.
A me, Enzo Palmesano, giornalista di Pignataro Maggiore, ormai fa un bel po’ tenerezza. In tanti mi dicono: ma perché non lo quereli?
Io non ho mai querelato nessuno, le querele le subisco solo e le considero un’attestazione di debolezza e di carente consistenza delle proprie funzioni cerebrali.
Non ho bisogno di querelare, perché quando ritengo di aver ragione, Iddio e Madre Natura mi hanno fornito idee, penna e ingegno per rispondere.
Per cui, non querelerò né Palmesano, né Saviano neppure stavolta, ad epilogo dell’ennesimo riproposizione ieri sera sulle frequenze di Rai Tre della performance di Villa Arzilla, durante la quale Palmesano ha riproposto la storiella che mi dipinge come colui che, arrivato dalle montagne del Sannio, prende le redini di un complotto editorial-camorristico ai suoi danni per farlo fuori dal Corriere di Caserta, in modo da fermare la sua penna mortifera che ogni giorni combatteva le trame del boss Vincenzo Lubrano e dei cacicchi da questi eterodiretti della politica pignatarese.
Ma stavolta, tiè il copia e incolla lo faccio io, perché costretto per la centounesima volta a rispondere alla stessa canzone.
Lo faccio attingendo a caso da uno dei miei precedenti cento articoli, così non spreco ulteriore tempo appresso a chi, mi riferisco a Roberto Saviano, artefice della pantomima, a differenza di chi scrive, che la pagnotta se la suda ogni giorno, conta su una rendita parassitaria frutto della inguaribile attitudine degli italiani di premiare, in ogni settore della vita politica e pseudo culturale, espressioni di pura apparenza, quelli che a Napoli si chiamano “quadri di lontananza“.
E allora, c’era una volta, tanto tempo fa, ma proprio tanto tempo fa, un tribunale, quello di Santa Maria Capua Vetere, in cui il “sempre appicciato” Guarino una mattina sedette sul banco dei testimoni con la nonchalance di chi non ha nulla da temere non avendo bugie da serbare, al cospetto del giudice Maria Francica e al suo collegio.
Per un’ora ho nutrito la mia vanità, facendo disperare la pubblico ministero della DDA, che cercava, invece, di farmi dire per forza una bugia, cioè di farmi fare falsa testimonianza, in modo da trasformare questa (vabbè, stai a spaccare il capello davanti alla potenza dell’antigomorrismo imperante) in verità di regime.
E cioè che io avevo cacciato nel 2002, dal Corriere di Caserta Enzo Palmesano, in quanto persuaso a farlo da uno che si chiamava Francesco Cascella, il quale, al tempo, aveva libero e quotidinao accesso alla redazione del giornale, al tempo acquartierata in corso Giannone, in quanto faceva il giornalista sportivo a TeleAlternativa, tv di cui era comproprietario Maurizio Clemente, l’editore dominus del Corriere di Caserta. Cascella era sposato, non ricordo bene se a una figlia o a una nipote del boss di Pignataro Maggiore Vincenzo Lubrano.
Ora, chi mi conosce bene sa che, ammesso e non concesso che io, arrivando dalle montagne del Sannio, dove si mangia prosciutto paesano, formaggio di pecora e non caviale, non sushi, fossi diventato, ambientandomi repentinamente qui a Caserta, da dove ogni sera, da venticinque anni a questa parte, alle 19.30 riparto per raggiungere le mie montagne, un estimatore della camorra indigena, ammesso e non concesso ciò che etnicamente era arduo di per sé, l’ultima cosa al mondo che mi avrebbe permesso il mio difetto di vanità sarebbe stata quella di mettermi sotto agli ordini di qualcuno, di uno di questi bifolchi analfabeti capiclan, si chiamasse lui Lubrano, Sandokan, Iovine, Belforte eccetera.
Ciò al netto del culto necessariamente fondamentalista del valore della legge e del diritto, stigma che ho dovuto assumere qui a Caserta giocoforza e che mi porta ogni giorno a riedificare, a rinnovare – altro che gli evergreen della rendita parassitaria di Roberto Saviano – la lotta al malaffare, di cui CasertaCe (Saviano si informi dal suo attico di New York comprato grazie al plagio degli articoli del Corriere di Caserta e di Cronache di Napoli) è divenuto icona della difesa della legalità militante e reale riconosciuta da centinaia di migliaia di persone che leggendoci sa quanto entriamo nel merito delle cose e quanto ogni giorno ci sporchiamo le mani per portare fuori le cose che segnalano il rapporto tra politica e camorra in questo merdaio che raccontiamo quotidianamente.
CAVALIERI E PANASSI, OSSIA LA VERA STORIA E I VERI MOTIVI PER CUI PALMESANO DECISE DI LASCIARE LUI IL CORRIERE
Chi lavorava quel Corriere dei primi anni Duemila sapeva bene quanto sia stato io sconsiderato nel non chiedere mai una scorta, nonostante le plurime minacce ricevuto e per quello che al tempo scrivevo e scrivevamo in totale solitudine, mentre tutti si prostravano, ad esempio, ai piedi di Nicola Cosentino e ai piedi di Nicola Ferraro, senza mai trasformate in strumento di autoelogio e auto acclamazione.
Andateveli a leggere gli articoli in cui scrivevo a Nicola Cosentino di uscire dalla sua ambiguità, sfidando la parola con parole nette e con gesti reali, esemplari. Andateveli a riprendere gli articoli che scrissi quando presero fuoco i mezzi di Eco Campania nel cantiere di Santa Maria Capua Vetere sulla guerra ormai guerreggiata tra gruppi di camorra sugli appalti dei rifiuti.
Scrissi e scrivemmo tanto. Lo potemmo fare in quel Corriere di Caserta soprattutto nei 14/15 mesi in cui l’editore dominus di cui prima fu forzatamente assente per beghe riguardanti custodie cautelari e altri titoli di minore importanza che gli impedirono di stare in redazione e che invece consentirono a me e a quel mio gruppo di giornalisti di stabilire tutti i record di vendita, mai più battuti, di un giornale locale in questa provincia, attestato a 8.500 copie al giorno di media, con punte di 20 mila.
Cifre di vendita che consentirono a quell’editore-proprietario di veder accrescere il proprio conto corrente mentre, caso più unico che raro, si trovava recluso in carcere, agli arresti domiciliari o con altre limitazioni della libertà.
Ma torniamo alla questione, raccontata a modo suo e senza alcun contraddittorio da Palmesano, cosa di cui chiederò conto alla RAI, Radio Televisione Italiana.
Questi si auto congedò dopo che io gli avevo offerto il mio totale appoggio, anche a costo di litigare con il “solito” dominus che, magari, propendeva un po’ per quel Giorgio Magliocca che Enzo Palmesano attaccava un giorno sì e l’altro pure.
Ora, teorizzare e dare bere agli spettatori di una trasmissione, condotta alla Putin-maniera, che io sia stato un supporter di Magliocca, è davvero un esercizio di “ballonismo spaziale”.
A Caserta tutti conosco la linea e la posizione assunta da me e da CasertaCe su Magliocca. Si può ben verificare, al riguardo, lo stato del rapporto che lega l’attuale presidente della Provincia, nonché sindaco eterno di Pignataro Maggiore a noi del quotidiano online che dirigo da anni, essendosi, peraltro, il Magliocca aggiunto anche lui alla schiera dei querelatori.
Le cose che scriviamo ogni giorno su Magliocca, sul suo comandante Giovanni Zannini è roba che Palmesano la vede con il binocolo, essendo la nostra una determinazione fattuale, leonina – e non solo chiacchierologica – nel denunciare con le carte e non con gli slogan, il malaffare imperante nell’amministrazione provinciale e anche nell’amministrazione comunale di Pignataro Maggiore, entrambe governate dal Magliocca.
Dunque, dicevo, a Palmesano posi una sola condizione che avevo pienamente il diritto di porre: “Okay Enzo, io ci metto la faccia, ma tu devi metterci la tua. Non so se hai un contratto da professionista a Il Secolo d’Italia, che te lo impedisce, ma siccome i tuoi articoli sono dirompenti, importanti, non puoi continuare a firmarti come Anna Cavalieri a Pignataro e Antonia Panassi a Sparanise. O ci metti la faccia come la metto io ogni giorni firmandomi da direttore umilmente anche gli articoli pubblicati nelle pagine interne della provincia, oppure questo che non voglia che sia, da ora in poi, più giornale di pseudonimi, non potrà ospitare articoli da te scritti e non firmati“.
Di fronte a queste condizioni, Palmesano andò via perché forse la firma non poteva spenderla, per accordi contrattuali con altri giornali o per altre ragioni che, naturalmente, si è ben guardato dallo spiegare nelle sue sortite da totem dei revival savianei.
Di qui la sleale attività di calunnia nei miei confronti, attivata e integrata da quel bellimbusto di Roberto Saviano, il quale, essendo stato sempre in cattiva fede e avendo deciso di costruire un personaggio per il cui successo era pronto, così come si è dimostrato pronto di sfuggire al dovere della ricerca della verità, si è sempre ben guardato dall’ascoltare anche l’altra campana, cioè la mia, così come ha continuato a non fare anche nella trasmissione di ieri sera, sapendo benissimo che in caso contrario avrebbe fatto una figura barbina, in quanto lo avrei smascherato su molti suoi trucchetti.
Lui all’epoca, correvano gli anni dal 2008 al 2010, parlava ex catedra, prese Palmesano sotto la sua egida e costruì la calunniosa boiata che quel giornale, fatto al tempo di sudore vero, di pulizia e di passione, fosse in realtà una sorta di cinghia di trasmissione della camorra e del clan dei Casalesi.
Una narrazione, un dipinto olografico troppo accattivante per il popolo bue, per il popolo dei superficiali, al punto che Saviano la corroborò con un’altra manifestazione di spregevole disonestà intellettuale intorno al famoso titolo su Don Diana, artatamente strumentalizzato, artatamente manipolato in modo da considerare solo la sua letteralità, ma non le virgolette che lo accompagnavano e che gli davano sostanza concettuale, men che meno il sommario e il testo dell’articolo in cui si diceva chiaramente che quella frase, espressa da un camorrista, detta in un interrogatorio e verbalizzata in udienza pubblica dibattimentale e non certo coniata da me e da noi di quel Corriere, era, al contrario, a nostro avviso, fango gettato sulla memoria del sacerdote assassinato.
Naturalmente, anche in questo caso, a Saviano la comunicazione di regime di questa Italia, quella della sinistra RAI, ma anche quella di Mediaset, ha offerto la comodità illiberale e totalitaria di esprimersi senza contradditorio.
E allora, siccome il processo a Cascella era stato istruito attraverso la scrittura di una sceneggiatura fallace, largamente infondata, basata sul fatto che fossi stato io a cacciare Palmesano per fare un favore al boss Lubrano, il sottoscritto fu chiamato, ovviamente, da quella pm della DDA, appartenente evidentemente al gruppo ultrà del Saviano team, come testimone dell’accusa, aspettandosi da me la recita di un copione scritto da altri e che magari mi avrebbe anche fatto comodo interpretare da ex direttore del Corriere di Caserta, il quale, minacciato larvatamente da un parente del boss Lubrano, si era visto costretto a cedere alla violenza camorristica, allontanando il Palmesano.
Ma io avevo introdotto la mia testimonianza con il giuramento di rito previsto per i testimoni, ovvero di dire tutta la verità, nient’altro che la verità.
E allora quella pm se la vide veramente nera quella mattina perché non ottenne da me la bugia che voleva farmi pronunciare sotto giuramento. Ma quel processo aveva un epilogo incorporato, non assolutamente costruito – a mio avviso e ad avviso di molti altri – attraverso le prove che quella pm della DDA era stata in grado di portare al suo interno, ma da un editto, antidemocratico e illiberale, emesso dell’imperatore Saviano che solo io in quel tempo osavo criticare, contestandogli sin da allora, ben prima della denuncia che il Corriere avrebbe presentato ai suoi danni, il plagio di pezzi interi copiati dal giornale che dirigevo e articoli interi del nostro gemello, Cronache di Napoli, dal quale Saviano letteralmente saccheggiò gli articoli a firma del collega Simone Di Meo che, non a caso, ha vinto, trionfato a sua volta quando i giudici civili hanno sentenziato che quello di Saviano fu un plagio senza sa e senza ma, condannando lui e la Mondadori di Marina Berlusconi, editrice di Gomorra, libro in cui il furbone si guardo bene da stampare per una volta, anche per una sola volta, anche per sbaglio, il nome di Nicola Cosentino, che di Silvio Berlusconi al tempo, era un pupillo, al pagamento di un risarcimento.
Il giudice Maria Francica, bontà sua, considerò fondate le tesi del legale di parte civile, di Enzo Palmesano, l’avvocato Salvatore Piccolo, il cui intervento la giudice seguì, sorprendentemente, con viso estasiato.
Cascella fu condannato e fu automatico, per tenere in piedi la logica di quella sentenza, che il testo della mia testimonianza fosse trasmesso dal giudice alla DDA in quanto sospettato di incubare il reato di falsa testimonianza, aggravato dall’articolo 7, in pratica dall’aver fatto un favore alla camorra.
LA TELEFONATA INTERCETTATA DI CASCELLA, OSSIA LA PROVA REGINA CHE NON ESISTE
Alla base delle sentenze che hanno condannato definitivamente Cascella c’è stata un’intercettazione in cui questi comunicava ad un suo interlocutore di aver ricevuto ampie rassicurazioni dal sottoscritto sul fatto che, rapidamente, il Corriere di Caserta si sarebbe liberato di Enzo Palmesano.
Allora, Francesco Cascella è entrato una sola volta nel mio ufficio. E al Corriere di Caserta non è venuto apposta per parlare con me. Lui, come già scritto prima, aveva libero accesso alla redazione, in quanto giornalista sportiva di Tele Alternativa, il cui 50% delle quote era nelle mani del nostro editore, Maurizio Clemente, che agiva in sinergia con il Corriere.
Cascella percorreva il corridoio di corso Giannone un giorno sì e l’altro no. Una mattina entrò e fece delle rimostranze su Enzo Palmesano. Io sapevo che aveva sposato una congiunta del boss Vincenzo Lubrano, ma un liberale non ha mai paura, non si fa condizionare, perché riconosce la sua dritta via.
Dissi a Cascella che se Enzo Palmesano avesse iniziato a firmare articoli con il proprio nome e il proprio cognome, rinunciando agli pseudonimi con cui firmava gli articoli che inviava in redazione con pervicacia, sarebbe rimasto al Corriere di Caserta, in quanto apprezzavo la battaglia che conduceva. Anzi, era mia intenzione allargare ancor di più gli spazi d’informazione dell’agro Caleno con quell’impronta.
Sempre a Cascella, il liberale Guarino disse che, qualora il signor Vincenzo Lubrano, direttamente o tramite il suo avvocato, avesse deciso di replicare su un articolo o sugli articoli pubblicati dal Corriere, io, che ho l’immagine di Voltaire dietro al mio letto, li avrei pubblicati integralmente, utilizzando la maniera liberale e libertaria senza filtraggio di Radio Radicale, di cui ero un appassionato ascoltatore, avendo sottoscritto in quel periodo la tessera del partito di Marco Pannella.
Ora, nonostante ciò, Cascella dice al telefono al suo interlocutore di aver ricevuto rassicurazioni da me. Attenzione, stiamo parlando dei primi mesi del 2002. Il mio avvento al Corriere di Caserta era avvenuto anche a causa di una dura contrapposizione tra l’editore Maurizio Clemente – con cui era facilissimo litigare – e una buona parte della redazione, alla quale era legata, anche per vincoli territoriali, Enzo Palmesano.
Quando io arrivai, nel gennaio 2002, quella parte della redazione, cinque-sei giornalisti, non pochi, aveva già deciso di andare via e fondare un altro giornale. Questo avvenne ad aprile e dopo pochi giorni andò in edicola il quotidiano Centocittà, durato 2-3 mesi al massimo e realizzato dai giornalisti fuoriusciti dal Corriere e dallo stesso Enzo Palmesano che ripropose in quel giornale gli pseudonimi di Anna Cavalieri e Antonia Panassi.
Non è improbabile che, frequentando il Cascella la redazione ogni giorno, fosse già a conoscenza della scissione e fosse già a consocenza che Palmesano avrebbe seguito suoi amici e colleghi conterranei. Di qui la furba idea di millantare e far ascrivere a suo merito davanti alla famiglia Lubrano, di cui era diventato membro, il fatto che Enzo Palmesano non scrivesse più in provincia di Caserta, unico giornale temuto da Vincenzo Lubrano e dai suoi colleghi camorristi.
Ora, è vero che esiste una coincidenza tra quello che Palmesano sostiene falsamente essere stato un allontanamento, dato che è lui ad essersene andato, non accettando di usare il suo nome e il suo cognome, e la telefonata intercettata del Cascella. Ora qualcuno può ancora credere che questa mia ricostruzione sia fasulla, speciosa e meramente difensiva.
Però, benedetto Iddio, se siamo in una democrazia, ho il diritto di opporla in contraddittorio durante una trasmissione in cui si accusa me e il giornale che dirigevo, esprimendosi a senso unico?
Era successo, come leggerete tra poco, già sui canali Mediaset, ma lì era una tv privata. Questa volta, invece, è la tv pubblica, per la quale pago il canone da decenni. In frazione parte, dunque, appartiene a Palmesano, ma parimenti a me a tutti gli italiani. Per cui quello andato in onda ieri è solo uno scempio del giornalismo, del buon vivere e della democrazia.
LA REAZIONE DELLA DDA AL FASCICOLO TRASMESSOGLI PER LA MIA PRESUNTA FALSA TESTIMONIANZA
Ora, nonostante che la telefonata intercettata rappresentò per il tribunale dell’adorazione al verbo savianeo la prova regina, io avrei dovuto essere indagato per falsa testimonianza, aggravata dall’articolo sette, favori alla camorra.
Sapete come fu accolto quel testo da magistrati più avveduti e meno coinvolti emotivamente rispetto a quelli del “commando ultrà Roberto Saviano”? Con una grassa risata, con giudizi che riconoscevano la fondatezza delle mie tesi e con un bel tiro da tre punti, con il cestino dei rifiuti che fungeva da canestro stile Palamaggiò.
Quella sentenza fu abusata calunniosamente per scopi economico-editoriali e per scopi presenzialistici.
MA LA CALUNNIA CONTINUO’ ANCHE GRAZIE ALLA BUONANIMA DI NADIA TOFFA
La coppia dei professionisti dell’anticamorra fece finta di niente e utilizzò la condanna di Cascella per avvalorare la frottola, ribaltando la verità, che io, non inquisito, non indagato, avessi cacciato Palmesano su pressioni che il Lubrano – cioè uno zoticone, un campagnolo al quale io non avrei rivolto comunque la parola, considerandolo un essere inferiore, solo per rispetto dell’alfabeto anche se fossi stato un plaudente estimatore del metodo mafioso – avrebbe fatto tramite Cascella nei miei confronti.
E in una mattinata come questa ne cantai quattro, se non otto, dalle colonne di questo giornale alla buonanima di Nadia Toffa la quale, umiliò la sua professione, consentendo dagli schermi di Italia Uno, in un programma-protesi de Le Iene, che i due sputassero a senso unico altre calunnie contro il sottoscritto, senza avvertire la necessità di contattarmi per far esprimere la mia versione. Esattamente come hanno fatto, a distanza di anni, ieri sera dagli schermi di Rai Tre.
Roba alla Pinochet, degna di tutte le dittature sudamericane più o meno attivate dalla CIA per timore di un’espansione comunista che avrebbe aggravata i già complessi rapporti con la Cuba castrista.
Questa è la mia verità. La mia verità e non, dunque, la verità che è probabilmente un traguardo metafisico impossibile di raggiungere anche in una qualsiasi aula di tribunale. La mia verità che può considerata anche bugia da chi la legge e da chi l’ascolta, ma un solo sindacato la mia verità non può toccare: il diritto di esprimerla e di esprimerla in contraddittorio rispetto a chi, con la sua di verità, mi esprime diffamazione o addirittura calunnia.
Il fatto che mi sia impedito in maniera illiberale, antidemocratica, dal Saviano e ancor di più dalle televisioni che ospitano le sue ormai iperdatate rappresentazioni, è un fatto gravissimo che mi porterà, almeno in sede civile, come ho già anticipato prima, a chiedere un pesante risarcimento danni alla RAI che mi consenta, almeno, di acquistare un retrobottega in Harlem, frazione di New York.