La domenica di don Franco: “No al primato dell’economia, del potere, della politica…”

1 Marzo 2020 - 09:42

 1 marzo 2020 – I Domenica di Quaresima (A)

                                                LA TENTAZIONE RAGGIUNGE ANCHE IL SIGNORE!                                            

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Inizia la quaresima, abbiamo 40 giorni, tanti, perché convertirsi richiede tempo. Mi piace pensare che il termine “quaresima” derivi dal latino “quaerere”, che significa cercare, domandare per sapere; noi generalmente domandiamo per avere: soldi, raccomandazioni, informazioni… Domandare per sapere: “Noverim te, noverim me!” (Agostino). Conoscere Dio, conoscere me, tutto qui e solo questo. Il resto viene dopo!  Quaranta è il numero simbolico con cui l’Antico e il Nuovo Testamento rappresentano i momenti salienti dell’esperienza di fede del popolo di Dio. Esprime il tempo della purificazione, del ritorno al Signore, della consapevolezza che Dio è fedele alle sue promesse. La cifra quaranta è il tempo adatto perché il popolo verifichi la fedeltà di Dio: «il

Signore tuo Dio è stato con te in questi quaranta anni e non ti è mancato nulla» (Dt 8,2).   Isacco, il figlio di Abramo, indeciso per carattere, finalmente, a quaranta anni decide di costruirsi la sua famiglia. Le tappe fondamentali della vita di Mosè sono simbolicamente scandite in tre periodi, ognuno di quaranta anni. Il libro dell’Esodo ricorda che Mosè ha tratto il popolo fuori dall’Egitto quando aveva ottant’anni, la somma di quaranta (Es 7,7) e anche l’evangelista Luca rilegge la sua storia nei tre periodi di quaranta anni ciascuna (Atti 7,20). Mosè rimane, poi, sul monte Sinai, con il Signore, quaranta notti e quaranta giorni per accogliere la Legge. In tutto questo tempo digiuna (Es 24,18).

Gli esploratori d’Israele impiegano quaranta giorni per completare la ricognizione della terra promessa dopo la loro partenza dal deserto di Paran (Nm 13,25). Gli anni di pace di cui gode Israele sotto i Giudici sono quaranta (Gdc 3,11). Il profeta Elia impiega quaranta giorni per raggiungere l’Oreb, il monte dove incontra Dio (1Re 19,8). Quaranta sono i giorni durante i quali i cittadini di Ninive fanno penitenza per ottenere il perdono di Dio (Gio 3,4). Quaranta sono anche gli anni del regno di Saul (At 13,21), di Davide (2Sam 5,4) e di Salomone (1Re 11,41).  Nel Nuovo Testamento, Gesù, prima di iniziare la vita pubblica, si ritira nel deserto per quaranta giorni, senza mangiare né bere (Mt 4,2). Nel deserto, praticando il digiuno si nutre della parola di Dio, che usa come arma per vincere il diavolo. Quaranta sono i giorni durante i quali Gesù risorto istruisce i suoi, prima di inviare lo Spirito (At 1,3). Dopo questo tempo ascende al cielo e invia lo Spirito Santo. Quaranta sono i giorni di avvento che preparano al Natale, come pure 40 sono i giorni di quaresima che precedono la Pasqua. Insomma, un tempo forte, una scossa esistenziale, un cortocircuito spirituale!

40 giorni … senza scherzare con il diavolo!   Quaresima diventa il tempo della verifica della nostra fedeltà a Dio: possiamo averlo tradito, mutilato, insabbiato, e tutto questo per viltà, per interesse, per stanchezza. Possiamo vivere “vivere tamquam Deus non esset”. Vivere nel recinto chiuso del benessere terreno, sempre più sofisticato e sempre più alienante. E il diavolo ci spinge ad entrare nel suo recinto di consumi, nella sua chiesa di dannati, con tecniche di persuasione tanto forti quanto morbide. No, non scherziamo con il diavolo, come Adamo ed Eva, che inciuciano con il maligno. Cristo, davanti al diavolo, ha detto poche parole, precise, decise, tutte tratte dalla Bibbia, come dire che solo la Parola di Dio è capace di cacciare il diavolo, e non i sofismi della nostra ragione raziocinante!

E’ di scena il diavolo!    Il diavolo sembra ritornato alla ribalta. E’ vero che L. Sciascia, il noto scrittore siciliano, in una delle sua ultime opere, Il cavaliere e la morte, ha scritto che “il diavolo se n’è andato, perché si è accorto che gli uomini hanno imparato a fare molto meglio di lui!”. Già prima di Sciascia, il grande Goethe aveva scritto nel suo Faust che “hanno cacciato via il Grande Maligno, e i malvagi più piccoli sono tutti restati”. Da un lato la credenza nel maligno viene liquidata come una fantasticheria delle mitologie primitive; d’altra parte cresce l’interesse per questo essere misterioso e tragico; altrimenti come spiegare i tanti fenomeni di magia, folklore, superstizione, sette sataniche, delitti inspiegabili, atrocità allucinanti? Come spiegare il successo di film come Rosemary’s baby, o L’esorcista, o libri come Il diavolo esiste e io l’ho incontrato? C’è chi persino, sull’esempio di Carducci o di Nietzsche, esalta il diavolo come un eroe audace, che sfida i divieti della divinità, come Prometeo. Povero il Rapisardi che nel 1877, riprendendo l’inno A Satana del poeta Carducci, compose i 10.000 farraginosi versi del poema Lucifero, inneggiando a colui che “porta all’uom salute e morte a Dio”! Che porti salute, lo sanno gli uomini, con tutti i mali fisici e morali che soffrono dopo la caduta di Adamo!

Essere tentati è segno di grandezza!   Più una civiltà è diabolica, meno crede al diavolo. Dunque rassegniamoci: questo racconto di Gesù tentato dal diavolo nel deserto sarà accolto male dai razionalisti di oggi, che lo liquideranno come una fantasia simbolico-letteraria. Vedremo un giorno chi aveva ragione. Personalmente credo che il diavolo è una persona molto bella, luminosa: “Lucifero” appunto, una intelligenza molto astuta, altrimenti non potrebbe ingannare tanti; una volontà sempre attiva, altrimenti non potrebbe adescare tanti complici. Anche Cristo è stato tentato dal diavolo. Come noi! Che ingenuo, il demonio! Tentare Cristo! Così penserà qualcuno. Io sono certo che il demonio è tanto intelligente che non perde tempo inutil­mente. E’ l’unica cosa in cui dà buon esempio. E fa onore al suo nome, anzi, ai suoi nomi: Diavolo vuol dire “accusatore”; Satana significa “nemico tentatore”; Demonio poi equivale a “nume, genio”, talvolta benefico come il dèmone socratico, più spesso malefico. E siccome, bugiardo com’è, si trasforma in angelo di luce, gli si addice benissimo anche il nome di Lucifero, che vuol dire “portatore di luce”. Gesù lo chiama “principe di questo mondo e padre della menzogna”. Pietro presenta Satana infaticabile “come un leone ruggente in cerca di chi divorare”. Paolo ne addita la tirannica potenza chiamandolo “il falso dio di questo mondo”.

No al primato dell’economia, del potere, della politica. Le tentazioni sono tre (quella dell’economia, del potere, della politica), e si succedono su tre scenari diversi (nel deserto, nel tempio, sul monte). Il diavolo prospetta a Cristo e ai suoi futuri discepoli tre forme di religiosità. La prima è quella del potere economico: una chiesa ricca, un’esistenza sazia. Ma Gesù proclama che “non di solo pane vive l’uomo”. La seconda è quella del potere religioso, inteso come pubblicità, magia, superstizione. Ma Gesù proclama di “non tentare Dio”. La terza è quella del potere politico, che, come un idolo sacro, un Leviatano mostruoso, chiede dedizione assoluta. Ma Gesù proclama: “Adorerai solo il tuo Dio”. Il vangelo delle tentazioni provoca un interrogativo: siamo “diventati” cristiani, o ci siamo “conservati” cristiani? E indica pure le condizioni per seguire Cristo nel suo doloroso e vittorioso cammino: no al primato dell’economia, no al primato del potere, no al primato della politica. Seguire Dio non è facile. Fu l’errore di Adamo ed Eva: preferirono la via facile, come mangiare un frutto per diventare simili a Dio. Anche il popolo ebraico: rimpiange le cipolle d’Egitto, si costruisce un inutile vitello d’oro, e rifiuta il cammino difficile verso la libertà. La via difficile non deve spaventare: la legge della vita e l’esperienza quotidiana ci ricordano che quanto è bello è anche difficile. Un buon matrimonio non nasce tutto bello e perfetto come Minerva dal cervello di Giove, ma va coltivato ogni giorno come una dolce e fragile piantina. Niente di più bello di una famiglia unita, di una comunità autentica, eppure quante difficoltà! Al contrario, anche un gioco facile diventa banale e noioso.

Questo vangelo in forma di racconto riassume una delle lezioni più profonde che si sono potute dare all’umanità. Chi meglio ha saputo riassumere questa lezione è stato probabilmente F. Dostoevskij nel discorso del “Grande Inquisitore” (I fratelli Karamazov, V, 5). L’idea di fondo di questo discorso è sconcertante. A giudizio del Grande Inquisitore, che rappresenta la voce della Chiesa, Gesù si è sbagliato. Perché ha pensato che il migliore servizio che poteva rendere all’uomo consista nel predicare la libertà. Ma Gesù non si è reso conto che “non c’è né c’è stato mai nulla di più intollerabile per l’uomo e per la società che essere liberi”. Non si tratta di una boutade. Noi non accettiamo ciò che ci riesce insopportabile. Gli uomini consegnano la loro libertà alle donne e le donne agli uomini, i cittadini ai politici, i lavoratori ai loro padroni. Tutti noi cerchiamo motivi “razionali” e persino “sublimi” per giustificare le nostre schiavitù. Ma la verità è che “non c’è per l’uomo rimasto libero più assidua e più tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi”.

Perché siamo così? Prosegue l’Inquisitore: “Col pane Ti si dava una bandiera indiscutibile: l’uomo si inchina a chi gli dà il pane, giacché nulla è più indiscutibile del pane; ma, se qualcun altro accanto a Te si impadronirà nello stesso tempo della sua coscienza, oh, allora egli butterà via anche il Tuo pane e seguirà colui che avrà lusingato la sua coscienza”. È quello che vediamo. In questi tempi di crisi, la gente sogna di ritornare ad essere schiava della cupidigia di magnati, banchieri, politici e furfanti. E questo sistema tocca pure l’istituzione clericale: “Abbiamo corretto l’opera Tua e l’abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere nuovamente condotti come un gregge e di vedersi infine tolto dal cuore un dono così terribile, che aveva loro procurato tanti tormenti”. L’Inquisitore continua ad essere vivo. Buona vita!