CASERTA. Piazza Matteotti riparte con il piede giusto: l’arrivo del prestigioso brand delle pizzerie di Capuano è una grande occasione. Ma questo è un luogo del “fare” e…
19 Dicembre 2023 - 20:03
GUARDA IL VIDEO. Qualche nostra riflessione a due giorni di distanza dall’apertura, fissata per dopo domani, giovedì 21 dicembre alle ore 19. Perché la storia di questa famiglia ci ha ispirato e perché si tratta di un’eccellenza gastronomica a prova di bomba.
CASERTA (g.g.) Affermare un marchio della pizza di qualità a Napoli è operazione nient’affatto agevole. L’antica capitale partenopea tiene in vita le sue tradizioni culinarie in maniera molto differente rispetto a quanto non succeda altrove.
Un esempio a caso, Roma: le pietanze provenienti dalla sua storia, peraltro non paragonabili alla quantità di quelle che hanno fatto grande la cucina napoletana, sono offerte dalla maggior parte dei ristoranti della Capitale. Ma chi ha un minimo di competenza e quindi capacità di discriminarne il gusto, stabilendo, cioè, qual è una buona carbonara o una buona coda alla vaccinara, rispetto ad una carbonara, ad una coda, o anche ad un abbacchio convenzionali, va solo in determinati locali, la maggior parte dei quali localizzati nell’area di Trastevere, dove, effettivamente, ce ne sono alcuni, non tantissimi in verità, che rispettano determinati canoni di preparazione e di qualità degli ingredienti ereditati dal passato. Ereditati, dunque, dall’identità.
Napoli è un’altra cosa, ma vi spieghiamo anche il perché
Napoli, dal punto di vista culinario, è un’altra cosa. Si tratta di una frase molto usata e anche molto abusata nella sua versione apodittica, cioè basata su una verità a priori, la quale non ha nulla a che vedere con l’impostazione culturale di questo giornale, di tipo razionale e razionalista. Napoli, dunque, non è un’altra cosa a prescindere, non è un’altra cosa per campanilismo, ma è un’altra cosa con delle ragioni ben precise e che eventualmente, se qualcuno riterrà, potrà opinare, potrà contestare. Dunque, vi spieghiamo perché, sul terreno specifico, sull’argomento che stiamo affrontando, Napoli è indubbiamente un’altra cosa rispetto agli altri posti. Se uno gestisce un bar dentro alla stazione ferroviaria o dentro all’aeroporto di Capodichino, allora potrà anche salvarsi, se non offre ai suoi clienti un caffè di un certo livello. Ma se un qualsiasi bar che non si trovi in questi luoghi di passaggio, in cui girano anche tantissime persone non napoletane, manca di rispettare determinati standard, relativi alla qualità del chicco di caffè, alla qualità della torrefazione, ma, ancor di più, alla qualità della macchina che irrora la tazzina, da manutenere giorno per giorno, affinché neppure un milligrammo di calcificazione vi risieda all’interno, se la tazzina non è calda (ma qui siamo nello scontato assoluto), anche il bar più convenzionale, più normale, maggiormente assistito da grandi flussi di traffico pedonale e veicolare, anche il bar più convenzionale, più normale tirerà le cuoia. Ciò perché il 90% dei napoletani, ma forse anche più del 90%, a fronte del 5 o 10% dei romani o dei bolognesi, è in grado di distinguere con precisione un espresso da bar all’altezza, da 8 in pagella, oppure da 9 o da 10, da un espresso appena sufficiente o addirittura sotto la sufficienza.
Queste competenze, che arrivano alla storia, da una identità che parte dalla moka, e che coinvolgono tante altre storie, quale ad esempio, quella del grande teatro eduardiano, da quel terrazzino da cui occhieggia De Filippo che impugna moka e tazzina nel secondo atto di “Questi fantasmi”, costituiscono un elemento che informa la scelta di consumare il caffè in un bar piuttosto che in un altro, con buona pace dello stress e con buona pace di quello che, ai tempi della famosa reclame del Cynar del grande Ernesto Calindri, veniva definito “il logorio della vita moderna”.
A Napoli si corre, ci si agita nel traffico, ma se il caffè non è all’altezza, quel bar specifico potrà essere il più comodo, il più agevolmente raggiungibile, il più fortunato nella possibilità di ospitare comodi parcheggi, state tranquilli, non ci sarà partita, è già un bar morto o quasi. Il napoletano, infatti, passerà appresso. E quel bar di mero servizio, che sta lì per soddisfare richieste ordinarie, campando di rendita sulla propria posizione topografica, finirà per pagare duramente la qualità di una bevanda sacra. Una cosa che non succederà mai a Roma, a Milano, a New York, a Parigi, in una situazione dello stesso tipo, trasposta, insomma, in relazione ad un prodotto della storia gastronomica parigina, londinese, milanese ecc.
Dal caffè alla pizza, il passo è breve, mentre la storia è lunga, molto lunga
Vogliamo parlare della pizza? La cosa più stupida e sbagliata che si possa pensare è che, siccome a Napoli tutti mangiano la pizza, chiunque si metta a farla è destinato ad avere successo. Una castroneria, ma, vabbè, diciamolo, una cazzata. Se è vero che il discrimine economico, cioè pagare una pizza 3 euro in più o 3 euro in meno, conta indubbiamente qualcosa o più di qualcosa, è ancor più vero che, se a Napoli non fai una pizza almeno da 6 e mezzo, esci fuori anche da questa struttura esclusivamente economia delle opzioni di un consumatore. Chiudi, non la viene a mangiare neppure il più squattrinato degli squattrinati.
Trasferiamo questo ragionamento sul terreno dell’eccellenza. Ci sono dei pizzaioli che hanno cominciato 49, 50, 60 anni fa a confezionare il proprio prodotto per offrirlo ai clienti. Oggi, il nipote di uno di questi pizzaioli, ha già aperto 17 pizzerie, con la 18esima in rampa di lancio per dopo domani, ossia giovedì 21 dicembre (CLIKKA QUI per leggere tutti i dettagli). Questa famiglia ha sbarcato, come si suo dire, il lunario. E’ diventata cioè ricca nel modo più serio, più equo, più pulito e onesto con cui si diventa, anzi, con cui è giusto diventare ricchi, secondo la dottrina economico-liberale di CasertaCe, quella della domanda pura e dell’offerta pura: io offro un mio prodotto, la gente lo compra e ogni anno il numero degli acquirenti aumenta sempre di più. Se la tua prima pizzeria è nata a Napoli e oggi sei arrivato a 18 pizzerie operanti, creando un brand di eccellenza, vuol dire che la tua pizza è da 10, perché il napoletano, non avrebbe mai decretato il tuo successo se il prodotto più antico, più prestigioso, più iconico della storia di questa città non avesse trovato nelle mani e nella materia prima utilizzata da quel pizzaiolo, un’espressione di grande eccellenza. Se non fosse stato così, il napoletano avrebbe preso il carretto e il pizzaiolo e li avrebbe gettati a mare nel porto di Mergellina.
Questa è la storia della famiglia Capuano, di Vincenzo Capuano nonno e di Vincenzo Capuano nipote che, ripetiamo , giovedì 21 dicembre, apriranno la loro pizzeria a Caserta, in piazza Matteotti, a partire dalle 19. La 18esima. Dopo aver spiegato alcuni concetti in termini generali, possiamo entrare maggiormente nel dettaglio e possiamo affermare che la parabola ascendente dei Capuano, si è incamminata nel sentiero più difficile.
L’eccellenza dei Capuano, la pizza a portafoglio e “Il ventre di Napoli” di Matilde Serao
Leggiamo, infatti, dalle note biografiche di famiglia, che i Capuano hanno iniziato infornando e vendendo la cosiddetta pizza a portafoglio.
Chi è ignorante penserà che si tratti solamente di un prodotto fast food o, per dirla in maniera più moderna, street food. Ma possiamo semplicemente considerare tale un prodotto, nato a Port’Alba nel 1738, cioè 285 anni fa, cioè quasi 3 secoli orsono? No, è un sacrilegio additare la pizza a portafoglio come un semplice prodotto di street food.
Di prodotti di fast food o di street food che vivono oggi con la capacità di essere considerati una bontà, una specialità storica, che ha resistito nei secoli, ce ne saranno, forse, 4 o 5 al mondo, Non ci siamo messi a consultare l’enciclopedia, per verificare quanti secoli di vita, abbia, ad esempio, il fish & chips londinese. Non ci sbilanciamo sul dato di antichità ma, eventualmente lo faremo prossimamente. Non bisogna essere campanilisti e sciovinisti, nel momento in cui si stabiliscono certe distanze di ordine qualitativo. Anzi, sapete cosa vi diciamo? Questo esperimento lo faremmo fare ad un londinese doc, il quale, se appena appena è intellettualmente onesto e gli metti nelle sue due mani una pizza a portafoglio e un fish & chips, dandogli la possibilità di mangiare solo una delle due pietanze, si può stare tranquilli che il fish&chips, dop 30 secondi, sarebbe già nello stomaco del gatto più vicino.
La pizza al portafoglio è nata più di un secolo prima della pizza al tavolo e non lo scrive un pinco pallino qualsiasi, ma lo sostiene Matilde Serao co fondatrice, insieme al marito Eduardo Scarfoglio de Il Mattino. Nella sua opera “Il ventre di Napoli”, la Serao individua propria in una pizzeria di Port’alba, la D’ambrosio, il luogo dove per prima è stata offerta, proprio nel 1738, una pizza a portafoglio. Attenzione, le ricerche della Serao non sono state fatte ieri o l’altro ieri, ma nel 19esimo secolo, cioè quando anche la trasmissione orale di certi fatti risalenti a un secolo e mezzo prima, cioè al 18esim secolo, era ancora possibile.
Con il suo carretto o nei suoi micro localini, Vincenzo Capuano senior vendeva le pizze a portafoglio. Ma ne vendeva tate, proprio tante, in quanto si era sparsa la voce che fossero tante buone da far perdere quasi i sensi a quelli che le mangiavano. Perché con la pizza a portafoglio è lecito fare tutto, di mangiare in maniera scomposta, di fottersene totalmente del bon ton. Anzi, con la pizza a portafoglio è sdoganata anche la patacca di unto, che diventa sul proprio vestito una sorta di medaglia al merito, alla storia e all’identità. Dunque, se i Capuano hanno raggiunto una condizione economica che ha permesso loro di investire, oltre che di vivere bene, grazie ad una pizza al portafoglio evidentemente sontuosa, beh, c’è da fidarsi, perché la pizza è nel loro Dna, ne conoscono i segreti più reconditi e se è diventata patrimonio dell’umanità per decisione dell’Unesco, è anche perché, oltre alla nota vicenda della Regina Margherita che dato struttura a quella impiattata nel 1889, dunque un secolo e mezzo dopo la nascita del portafoglio del gusto, si deve ad artisti, ad artigiani, a cultori della gastronomia di identità, e allo stesso tempo eccellenza, come la famiglia Capuano, se l’Onu ha riconosciuto a questo prodotto quello che era giusto riconoscergli.
Dunque, con tutto il rispetto per le altre pizzerie casertane, sicuramente di gran prego, qui non è tanto questione di stabilire se la pizza di Capuano sarà leggermente migliore o leggermente peggiore di quella di altri produttori, di altri pizzaioli. Qui c’è l’orgoglio di un brand che si è affermato partendo dall’umiltà, partendo dalla povertà, partendo dal sacrifico di chi si alza alle 4 del mattino e, con un carretto, oppure in un buco di 10 metri quadrati, vendeva il prodotto artigianale. Direbbero negli Usa dei Self made man, da quelle parti il complimento migliore che rapportato alla nostra realtà è qualcosa di superiore rispetto al titolo di cavaliere della Repubblica, o di cavaliere del lavoro, o di commendatore, o di grande ufficiale.
Il Rinascimento di Piazza Matteotti, occasione irripetibile per la città di Caserta.
Insomma, piazza Matteotti riparte con il piede giusto, perché gli imprenditori che hanno scelto, che hanno convinto Capuano ad investire da noi, il nipote con le sue pizze, il nonno, che, come si può vedere dal video che pubblichiamo in alto, all’inizio di questo articolo, è ancora straordinariamente vitale con la sua pasta e patate, daranno a Caserta un contributo per la sua sprovincializzazione. Perché lo stesso brand che in tanti incrociano in via Lazzaro Papi, nel cuore del quartiere di Porta Romana, la parte più importante di Milano, lo incontreranno a Caserta, in piazza Matteotti. Speriamo che Capuano incroci un habitat che lo convinca fino in fondo, che lo persuada del fatto che chi viene a investire a Caserta, partendo da un consistente e prestigioso know how, come il suo, , deve avere la percezione di essere in un posto dove il proprio lavoro da artigiano di pregio è del pregiato venga apprezzato, anche da un punto di vista morale
Lo meritano quel carretto e quel mini locale con cui i Capuano hanno iniziato e grazie ai quali sono diventati ciò che sono diventati. .