La Domenica di Don Galeone. La quarta domenica di Pasqua è dedicata al Buon Pastore ed è la giornata in cui la cristianità è chiamata a pregare per le vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa.

21 Aprile 2024 - 07:39

21 Aprile 2024 ✶ Quarta Domenica di Pasqua (B)

Gesù, buon pastore, dà la vita per noi!

Nel vangelo, Gesù si presenta come il buon pastore; anticamente, il pastore non era solo la guida, ma anche il compagno, pronto a difendere e a morire per il gregge. L’immagine del pastore, tanto familiare ai tempi di Gesù, non lo è più ai nostri giorni; oggi un pastore con le pecore lo vediamo solo in tv! È stata una perdita la scomparsa di questa figura, che definirei sacra, come quella del seminatore, della madre, del maestro! Il pastore è una figura plastica che immediatamente trasmette un messaggio: Dio ama l’uomo, lo guida, lo difende, per il gregge dà anche la vita!

Il Signore è il mio pastore!

Siamo alla domenica del “buon pastore”, nella quale siamo tutti impegnati a riflettere e a pregare per le vocazioni sacerdotali e religiose. Giovanni fa ricorso a tre simboli importanti: quello del pastore, quello della porta, quello delle pecore. Gesù è il buon pastore; en passant, ricordiamo che nell’originale greco abbiamo “bel …kalòs” pastore: nello stile orientale bellezza e bontà formano un tutt’uno. Uno dei salmi più belli descrive il rapporto tra Dio e il fedele: “Il

Signore è il mio pastore, non manco di nulla” (Sal 23). In seguito, il titolo di pastore viene dato anche a quelli che rappresentano Dio in terra: i re, i sacerdoti, i capi, i profeti… che da pastori possono trasformarsi, però, in lupi e mercenari e contro questi il profeta Ezechiele scrive una terribile requisitoria (Ez 34,1).

Un’altra nota del pastore “bello/buono” è quella della conoscenza: “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14). Già sappiamo che nella Bibbia il verbo “conoscere” implica mille sfumature, che coinvolgono sensi e ragione, sessualità e a affetto, volontà e intelligenza. In una società pastorale, il rapporto tra pastore e gregge non è solo di tipo economico; si sviluppa, invece, un rapporto quasi personale; giornate passate insieme, in luoghi solitari, il pastore finisce per conoscere tutto di ogni pecora, e la pecora riconosce, tra le tante, la voce del “suo” pastore. Questo brano di vangelo appartiene al genere di “auto- rivelazione”. Quando Gesù dice di essere il buon pastore, egli presenta la sua identità, molto diversa da quella del mercenario. Va anche sottolineato che il “punto di raccolta” per le pecore non è un luogo particolare, ma l’amore di Dio rivelato dal Figlio. Gesù ha dato vita ad una chiesa intesa non in senso stretto (chiesa cattolica, ortodossa, sinagoga, moschea, fiume sacro…) ma in senso lato, cioè a un raduno ecumenico universale. E la chiesa cattolica deve perciò presentarsi non come una potenza divisiva, ma come una forza inclusiva e attrattiva, grazie all’amore per la vita e alla passione per l’uomo.

Le pecore conoscono la voce del pastore

Gesù vuole che noi lo conosciamo come egli si conosce, come il Padre lo conosce. Tale esigenza ci spaventa; anche nelle migliori famiglie è raro conoscersi veramente; pensiamo che sia pericoloso. Chi oserebbe dire: “Mia moglie conosce me come io conosco mia moglie?”. I genitori vogliono conoscere tutto dei figli, ed è anche giusto! E se anche i figli conoscessero tutto del padre e della madre? Quanti schermi, quanti silenzi, quante parole non si dicono più, perché è meglio tacere! Bisogna veramente amare per desiderare di mostrarsi come siamo, con le nostre odiose colpe, i nostri vergognosi pensieri, e con quella strana innocenza che ancora è presente in ognuno di noi.

Sappiamo che il Signore ci conosce bene, ma di questo abbiamo più timore che gioia; dal catechismo sappiamo che Dio vede tutto (il famoso occhio nel triangolo!), e pensiamo quasi di essere spiati e condannati, invece di pensare che ci segue per aiutarci. È questo l’unico lavoro degno di un padre e di un Dio; è questo il primo articolo della nostra fede: “Credo in Dio, padre onnipotente” significa che Dio è sempre pronto a perdonare, a dare fiducia, ad accogliere ogni figliol prodigo e dissoluto! Alcuni cristiani pensano che alla fine della vita si troveranno davanti a un “giudice”, come quello della Cappella Sistina. Ma no! Ecco una bella notizia: ci troveremo davanti a un “padre”, che ordina di fare festa perché siamo ritornati a casa! (Lc cap.15).

L’antitesi della fede non potrà mai risolversi in una pacifica sintesi. In quanto credenti, dobbiamo confessare di continuo la paternità universale di Dio; ma c’è anche un aspetto inquietante della fede: Dio è nascosto, le sue vie non ci sono note, i tragici fatti della vita tante volte contraddicono la paternità di Dio. Noi oggi non viviamo come gli antichi monaci, chiusi nel loro orticello dove fioriscono fiori, maturano frutti, sorge il sole, cantano salmi. Le tragedie sono vicino a noi, nelle nostre case, nei nostri occhi. I pii discorsi non sono più possibili, la nostra fede è chiamata a diventare matura, a uscire allo scoperto, dalle celle dei conventi alle piazze della storia. È pericoloso parlare di Dio con sicurezza, dire con presunzione “Dio lo vuole!”. In tutte le epoche storiche, in cui si era molto sicuri di Dio, in quelle stesse epoche storiche si era spietati contro l’uomo. I roghi sono stati accesi da credenti che erano sicuri di Dio, che avevano teologie molto precise e filosofie molto dogmatiche. I roghi sono stati accesi da tutti quei teologi e ideologi che erano troppo sicuri circa il bene e il male, sempre pronti a lanciare la pietra contro il fratello, sempre pronti a ghigliottinare il cittadino in nome degli immortali principi. Nessuno deve mettere le mani sull’uomo! Nella storia antica si legge di un individuo, che, per costruire una nuova e bella Roma, bruciò migliaia di romani: quel folle si chiamava Nerone!

BUONA VITA!