La Domenica di don Franco: “Il migliore uso dell’eucaristia non è adorarla, ma viverla.  Ricevere la comunione non è un rito magico…”

14 Giugno 2020 - 17:18

14 giugno 2020 – Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (A)
CRISTO PANE PER L’OGGI E PER LA VITA ETERNA
Gruppo SHALOM הקדושים השרשים [email protected]

Prima lettura: Dio ti ha fatto uscire dalla condizione servile (Dt 8,2). Seconda lettura: Un solo pane, un solo corpo noi siamo, pur in molti (1Cor 10,16). Terza lettura: Io sono il pane vivo, disceso dal cielo (Gv 6,51).

Ricordati… Non dimenticare…   Il libro del Deuteronomio si presenta come una raccolta di discorsi pronunciati da Mosè sul monte Nebo poco prima di morire. In realtà il libro è stato composto molti secoli dopo, un po’ prima della distruzione di Gerusalemme (900 a.C.). E c’è una spiegazione: Israele vive una situazione drammatica, minacciato a Nord dagli assiri e a Sud dagli egiziani. Un tenaglia micidiale. Cosa fare?  Con chi allearsi? Come un ritornello, l’autore di Deuteronomio rivolge al popolo un invito:  Ricordati (Dt 8,2) … Non dimenticare (Dt 8,14). Lo scrittore sacro fa una lettura del passato, quando gli ebrei erano nel deserto spaventoso (Dt 8,15). Dio li ha liberati. Ma, come spesso capita, superato il pericolo, gli ebrei poi si erano ben sistemati fino a dimenticare Dio. L’invito a ricordare, a non dimenticare è rivolto anche a noi. I quarant’anni trascorsi dal popolo ebraico nel deserto rappresentano, secondo il simbolismo biblico, un’intera generazione, tutta una vita. Anche noi, durante il nostro esodo, dobbiamo ricordare di essere in cammino verso la Terra Promessa. Questo mondo non è una “valle di lacrime” ma resta sempre un viaggio verso un Oltre, verso un Altro. Incontreremo anche noi difficoltà ma Dio non abbandona mai i suoi figli!

Deserto, luogo di serpenti e di scorpioni…   Anche noi oggi dovremmo ricordare tante cose del nostro viaggio, non solo gli scorpioni e i serpenti (Dt 8,15), ma anche l’acqua sgorgata alla roccia e la manna discesa dal cielo. Quante volte ci siamo sentiti disperati e tristi, ed ecco dal cielo un aiuto, uno squarcio, a ricordarci che non viviamo la storia da soli, chiusi nel tragico cerchio dell’immanenza. Quante piacevoli sorprese!
Certo, il vecchio dura, magari per forza d’inerzia, mentre il nuovo viene come un fiore che sboccia e la sera è già secco. Ma dentro la roccia arida scorre la linfa. Questo lo sappiamo perché Dio è presente nella vita. Questa è la nostra fede! Evidente è la vecchiaia e non la novità, la ferocia e non il perdono, l’egoismo e non la solidarietà, la morte e non la risurrezione. Ma chi vuole solo l’evidenza deve rassegnarsi a essere il custode del passato. Avere fede significa essere privo di evidenze razionali, di prove scientifiche. Avere fede significa credere in Dio, che ha stretto un patto con l’uomo in cammino nel deserto. Noi siamo gli esegeti della novità, non i custodi di un sepolcro  vuoto!

La grandezza di Dio nei piccoli segni…   L’Eucaristia è una tavola di amici, un banchetto di festa. Per un buon pranzo, occorre una persona che inviti, degli invitati che accettino, del cibo da consumare. Qui la persona che invita è Gesù, che offre tutto se stesso attraverso il gesto più umano: l’invito a una tavola. A tavola avviene un duplice scambio: pane e amicizia; scambio con chi invita, ma anche tra gli invitati. Che tavola triste quella in cui ogni invitato parla solo con il padrone, o gli invitati parlano solo tra loro senza ringraziare il padrone. Non sarebbe più un pasto tra amici ma una refezione tra collegiali. Qualche volte nelle nostre chiese sembra di partecipare non a un unico banchetto, dove batte un cuore e  un’anima sola, ma di trovarsi in un ristorante con tanti tavolini, dove ognuno si comunica con Dio.
Ognuno per sé e Dio per tutti! Ma no! A tavola occorre stare insieme e parlarsi, raccontarsi, progettare. Direi che la tavola è fatta non solo di presenze, ma anche di parole, di confidenze, di narrazioni. A tavola il cellulare va spento, occorre non solo darsi, ma anche dirsi! Mai a sufficienza parlerò male del televisore, che ha segnato il tramonto del vecchio tavolo “rotondo”, attorno al quale la famiglia si trovava unita nel dialogo delle diverse esperienze e generazioni. Il tavolo rappresenta il centro focale, il televisore invece produce la dispersione individualistica; non si è più seduti uno di fronte all’altro ma uno accanto all’altro. La famiglia è diventata una sala pubblica in miniatura!

Chi mangia questo pane vivrà in eterno Il brano del vangelo è la parte conclusiva del famoso “Discorso sul pane di vita”, tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, dopo la “distribuzione” dei pani e dei pesci. Il miracolo (“segno”) ha suscitato grande meraviglia nel popolo che vuole catturare Gesù e farlo re (Gv 6,14). Gesù non gradisce questa “fede immatura” e fa capire che occorre passare alla “fede matura”. La guarigione del cieco significa che Gesù è la luce. La rianimazione di Lazzaro: che Gesù è la vita. Il pane distribuito: che Gesù è pane di vita eterna. Insomma: dalle cose visibili alle realtà invisibili. Per non cadere in fantasticherie cannibalesche, bisogna comprendere bene il significato di “mangiare la carne e bere il sangue” (Gv 6,54). Sappiamo che molti testi biblici proibiscono, e severamente, la pratica di mangiare carne umana e bere il sangue (Lv 17,10), perché la vita appartiene solo a Dio. “Mangiare la sua carne e bere il suo sangue” significa che Dio si rivela e ci salva attraverso Gesù, figlio del falegname, fatto uomo, vissuto tra noi. Qui vorrei mettere in guardia da alcune interpretazioni fuorvianti e mi riferisco alla spiritualità eucaristica del cosiddetto “Divin Prigioniero”, che, chiuso nel tabernacolo, ci aspetta per fargli compagnia e convincerlo a concedere sempre nuovi favori: compagnia a lui, favori a noi!
L’eucaristia è stata voluta da Gesù soprattutto come alimento da mangiare; anche quando viene esposta all’adorazione (meglio nella pisside, non nell’ostensorio!) è per essere consumata come cibo. Solo così mantiene il suo autentico significato. Gesù non ha detto: “adoratemi!” ma “mangiatemi!” (in greco: masticatemi!). Prima di ricevere il Signore, è necessario ascoltare un
brano del vangelo. Quando si firma un contratto, si devono leggere attentamente tutte le clausole. Anche Paolo lo raccomandava: “Ciascuno esamini se stesso e poi mangi di questo pane” (1 Cor 11,28). Il gesto di stendere la mano per ricevere il pane consacrato indica questa disposizione ad accogliere Cristo. Altrimenti uno mangia e beve la propria condanna, sottoscrive un contratto a proprio danno!
L’insistenza sulla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia mi è sembrata sempre strana. Conoscete una presenza irreale di Dio o una sua assenza reale da qualche parte nell’universo? Il grande sbaglio è quello di materializzare, isolare questa presenza e concentrarla nell’ostia, invece di sentirci tutti responsabili della sua presenza. Evidentemente rassicura di più isolare Cristo in un pezzo di pane che far dipendere la sua presenza dalla forza della nostra fede e della nostra unione!
Dove due o tre sono riuniti in nome mio, io sono in mezzo a loro (Mt 18,20). Si potrebbe tradurre così: “Io sono dove due o tre vivono del mio amore perché condividono il mio pane e il loro pane”. Chi dà il suo pane, dà la sua vita per amore. L’Eucaristia è stata istituita, perché sia al servizio dell’uomo, e noi abbiamo messo l’uomo al servizio, in adorazione del pane eucaristico. Il migliore uso dell’eucaristia non è adorarla, ma viverla.  Ricevere la comunione non è un rito magico, l’ostia non è una specie di pillola che agisce in maniera automatica. In questo senso non sono esatte tutte le formule che utilizzano parametri spaziali, che parlano cioè di Gesù dentro l’ostia o immaginano una sua presenza in miniatura. La filosofia tomista non sembra più in grado di esprimere adeguatamente il dogma dell’eucaristia. Il tomismo ricorre a tutta una serie di miracoli metafìsici, dunque impensabili, dal momento che la metafìsica esprime le leggi necessarie dell’essere. Per l’uomo moderno, il “senso” è l’essenziale della realtà di una cosa. L’uomo è un datore di senso, e questo è evidente in tutta la Bibbia: Ognuno avrebbe avuto il nome datogli dall’uomo (Gn 2,19; Gn 17,5; Gn 17,15; Mt 16,16; Mc 3,16; Gv 1,42). Senza noi, il mondo non avrebbe senso, non sarebbe niente. Ma quando l’uomo dà a una cosa un senso, un nome diverso, la modifica totalmente. Una fotografia: la fotografia di mia madre per me è piena di senso ed è sacra; ma a un estraneo non dice niente. La realtà fisica di questi oggetti è rimasta la stessa, ma sostanzialmente hanno cambiato senso. Se i partecipanti non hanno la fede, non accade niente. Cristo diviene presente nell’eucaristia perché è già presente nel prete e nei fedeli, grazie alla loro fede. Ciò che Cristo vuole consacrare, non è solo del pane o del vino ma soprattutto noi. Numerosi cristiani vivono l’Eucaristia come un «rituale» che si deve osservare alla lettera. Per altri è un «precetto» che si deve adempiere una volta alla settimana. In non pochi casi è un «cerimoniale di devozione». Tutto ciò ha oramai poco a che vedere con i pranzi di Gesù. I pranzi con i poveri, con i peccatori, con i pubblicani, con i vagabondi della strada, come dimostrano la
parabola del gran banchetto del Regno (Lc 14,15), le condivisioni dei pani, la cena d’addio, i pranzi del Risorto. Se la Chiesa desidera davvero un rinnovamento profondo, il primo problema da affrontare è la sua forma concreta di celebrare l’Eucaristia. È poco importante l’idea filosofica o la teoria teologica di come spieghiamo la presenza di Cristo in questo sacramento. L’aspetto più importante è poter esclamare un giorno anche noi, come Paolo: “Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20).

Un po’ di storia…   La festività del Corpus Domini si iniziò a celebrare nella città di Leja nel 1246 e fu istituita per la Chiesa universale nel 1264 da papa Urbano IV. Nella festa del Corpus Domini, si vuole esibire con solennità l’ostia consacrata per l’adorazione dei fedeli. Questo ha rappresentato il passaggio definitivo verso una concezione dell’Eucaristia “devozionale”che aveva poco a che vedere con quella “evangelica”. Questo cambiamento iniziò alla fine del secolo VIII, quando la messa prese ad essere recitata dal prete a voce bassa. Poi, i preti iniziarono a celebrare di spalle alla comunità, si moltiplicarono le messe solitarie, con relativo mercimonio. Infine, nel secolo X, il prete e l’altare si
allontanarono dai fedeli, che assistevano passivi, si limitavano a “vedere” la messa, ma non a “partecipare”. Tutto ciò ha provocato una nuova teologia della Chiesa: il prete è l’attore centrale e principale, i fedeli, invece, sono semplici clienti e sudditi. Anzi, a partire dal teologo Pietro Lombardo, l’aspetto specifico del sacramento dell’«ordine» è il potere di trasformare il pane ed il vino nel corpo e sangue di Cristo. In questo modo si è deformata la teologia dell’Eucaristia. Il Vaticano II ha recuperato in buona parte il significato originale della teologia del primo millennio.
A tutti con affetto l’augurio di BUONA VITA!