L’EDITORIALE. Gioielli&Ndrangheta. Il Tarì continua ad essere un caso criminale. Non se la può cavare con le solite scuse ma deve vigilare
24 Luglio 2018 - 11:21
MARCIANISE – Il 18 giugno 2017, quindi poco più di un anno fa, commentando l’ennesima operazione della Guardia di Finanza all’interno di una delle attività del Consorzio Orafo stanziato a Marcianise, scrivevamo un articolo di commento in cui, oltre a criticare la gestione imprenditoriale del citato consorzio, ci permettevamo di dare qualche consiglio affinchè l’azienda desse un taglio, una volta e per tutte, alle troppe infiltrazioni criminali che si registravano attraverso l’apertura di punti vendita in cui fondamentalmente si riciclavano soldi di provenienza illecita.
Allora facevamo capo solamente a indagini riguardanti la camorra napoletana e quella casertana. Stamattina, visto che il Tarì non si è proprio voluto far mancare nulla, abbiamo salutato il possibile ingresso della ‘Ndrangheta all’interno di una delle gioiellerie accolte a braccia aperte dal management del consorzio. Un anno è passato da quel nostro articolo e nessuno dei consigli, gratuitamente forniti, è stato preso in considerazione.
Conoscendo le caratteristiche e anche gli eventi che hanno segnato prima la gravidanza, poi la nascita del Tarì, non ci stupisce affatto che quelle nostre proposizioni siano state completamente ignorate.
Al Tarì bastano due cose: stare anche un millimetro al di qua del confine che discrimina il lecito dall’illecito e il consenso dei benpensanti, che da sempre è costituito quasi interamente da una delle forme più pure che declinano il termine ipocrisia.
Proprio oggi, nel giorno in cui ricorre la nascita di uno degli scrittori italiani più interessanti del ‘900, ci piace evidenziare la relazione tra i benpensanti e l’ipocrisia umana.
Vitaliano Brancati la definì in maniera geometrica, chirurgica, nelle sue opere più importanti, a partire da Il bell‘Antonio e Paolo il caldo.
Purtroppo, i benpensanti qui da noi non sono rappresentati solo da un corpaccione indistinto e senza un’identità individuata. Di benpensanti come quelli descritti da Brancati sono piene le istituzioni, purtroppo anche quelle che detengono la titolarità delle attività di prevenzione e di repressione della criminalità.
Qui sotto vi riproponiamo quel nostro articolo, rimasto lettera morta.
L’EDITORIALE MARCIANISE. Il Tarì, ormai, è un caso criminale. Il consorzio non può girarsi dall’altra parte e minimizzare. Ecco cosa deve fare dopo il caso della camorra dei Mallardo
Potremmo proseguire per ore, andando a ritroso, negli archivi della cronaca nera. Questi sono solo gli ultimissimi episodi, che, come si vede, fanno densità dentro al perimetro comprendente solo quattro mesi. Dunque, se ci fermassimo solamente agli ultimi tre anni, supereremmo ampiamente la doppia cifra ed andando più indietro, forse, toccheremmo addirittura la tripla. Tutti episodi in cui l’autorità giudiziaria è intervenuta per reprimere situazioni in cui, all’interno del Tarì di Marcianise, si svolgevano attività criminali, più o meno condizionate dalle camorre assortite che operano all’interno dei confini della nostra regione.
Rispetto ad una situazione tanto grave, ad una numerosità di casi così elevata, può essere ancora considerata sufficiente, esauriente ed esaustiva, la solita risposta data dalla società consortile? Può bastare la solita risposta di chi gestisce l’enorme area fieristica e commerciale dei metalli preziosi e della gioielleria, che il consorzio è come un condominio e dunque non può rispondere delle colpe e delle responsabilità dei singoli soci, paragonati, appunto, ai condomini?
No, non può. Non può perché, relativamente all’innocenza delle intenzioni iniziali che portarono alla costituzione del consorzio, di questo soggetto economico, dando per scontato – o per quelli che hanno una visione meno garantista, “ammesso e non concesso…” – che l’innocenza attraversi le intenzioni, non si può continuare a raccontar barzellette, affermando che questi sono episodi isolati, note stonate dentro ad un coro di eccellenti ed onesti interpreti dell’attività del ricercatissimo artigianato orafo.
Questioni di numeri, che lasciano poco spazio alle opinioni. Il fenomeno è sistematico e gli operatori interessati da inchieste giudiziarie sono ormai tantissimi. Il Tarì, inteso come consorzio, non può chiamarsi fuori perché una volta o l’altra finirà che questa vera e propria gara ad eliminazione, attivata dalle indagini giudiziarie, finirà per minarne le fondamenta, fino all’inevitabile crollo. Da questo punto di vista non si può tacere e non stigmatizzando l’assenza e l’insufficienza dei controlli a monte, operati prima dell’ingresso di nuovi soggetti. Perché se è vero che una società privata o un consorzio privato non possiedono la potestà per definire con tratti certi e con i poteri di una istituzione pubblica, la “conventio ad excludendum” di un’interdittiva antimafia ad esempio, è anche vero che possono, invece, tranquillamente, dopo una indagine conoscitiva di tipo informale (ma fino ad un certo punto perché la culpa in vigilando non è un istituto dell’astrologia, ma del diritto civile), negare semplicemente l’ingresso nella compagine sociale a quei soggetti che, ad avviso di un organo di verifica interno, magari formato da magistrati in pensione o da esponenti delle forze dell’ordine non più in servizio, non possiedono i requisiti regolati da una carta etica che può essere molto più dura, vincolante, rispetto a ciò che la norma dello Stato consente quando è il settore pubblico a dover decidere sull’ingresso di soggetti economici privati nelle procedure di una gara d’appalto o di una manifestazione di interessi.
D’altronde, le decine e decine di inchieste che travolgono i consorziati del Tarì non possono più essere liquidate con un’alzata di spalle, perché ciò va a comprimere la credibilità strutturale e complessiva di quella che, sulla carta, era una bellissima idea per lo sviluppo reddituale di un settore di alto prestigio, qual è il comparto dell’artigianato orafo.
Se il consorzio non interviene, non potrà essere liquidato come un attacco gratuito e diffamatorio, così come è stato fatto in passato utilizzando una forma di difesa, che se non era in malafede, allora era stolta ed autolesionista, quello di chi parlerà della creazione di una vera e propria zona franca del malaffare. Perché se un’azienda non si pone delle domande, degli interrogativi stringenti nel momento in cui al proprio interno circola oro rubato, riciclato oppure monili contraffatti, falsificati e ricettati, allora non possiamo che farci soccorrere da una frase tranciante, ma in certi casi tanto disarmante quanto efficace: “Di che cosa dobbiamo parlare?”.
Si impone ai dirigenti del consorzio Tarì una scrupolosa analisi ed un attento vaglio sull’identità personale, professionale, sulla storia imprenditoriale scoperta e coperta di chi opera al suo interno.
Magari ci sbagliamo, ma non ci ricordiamo che un comitato di disciplina interno abbia prodotto fino ad oggi provvedimenti di espulsione o anche di semplice ammonizione nei confronti dei soci che si sono macchiati di condotte che hanno leso la reputazione del centro orafo e quindi dell’intera città di Marcianise.
E qui il discorso dovrebbe toccare il livello politico istituzionale. Ma anche in questo caso un secondo “ma di che cosa dobbiamo parlare?” è d’obbligo mentre guardiamo, contempliamo, attaccandoci al viso la simpatica emoticon che strabuzza gli occhi, insieme ai nostri lettori la pagina con cui “Il Mattino” che ha come capo redattore centrale, quindi come responsabile di questa impaginazione e di questo titolo sul recentissimo blitz relativo al clan Mallardo, proprio il sindaco di Marcianise Antonello Velardi.
Avrebbe esclamato Peppino nei confronti di Totò: “Ho detto tutto…”.
GIANLUIGI GUARINO