La Domenica di Don Franco: “Fare della domenica un giorno per gli altri: si può, si deve trovare il tempo per fare del bene”

11 Aprile 2021 - 09:16

II Domenica di Pasqua – 11 aprile 2021

Un cuore solo, un’anima sola!

Prima lettura: Un cuore solo e un’anima sola (At 4,32). Seconda lettura: Amare Dio significa osservare i suoi comandamenti (1Gv 5,1). Terza lettura: Se non metto… se non tocco… non credo (Gv 20,19).

 La descrizione della prima comunità cristiana di Gerusalemme è certo idealizzata, però resta una proposta ed una provocazione alle nuove comunità. Non è la cronaca di ciò che accadeva negli anni 30-40 d.C., ma una pagina di catechesi. Prendendo spunto da alcuni fatti realmente accaduti (qualcuno davvero aveva donato le sue ricchezze: At 4,36), l’autore Luca ci indica i sentimenti fraterni che devono regolare una comunità. I cristiani di Gerusalemme apparivano come cittadini di un altro mondo, tanto da riscuotere grande ammirazione (At 4,33). Ebrei e pagani s’interrogavano sul loro stile di vita così diverso e i discepoli rispondevano: “Viviamo così perché Cristo è risorto!”. Ecco: una comunità fraterna era la prova più convincente. Racconta san Girolamo che Giovanni, ormai vecchio e quasi cieco, invitato a prendere la parola durante l’assemblea, ripeteva sempre lo stesso invito: “Figlioli,
amatevi gli uni gli altri!”,
e a chi gli chiedeva qualche insegnamento nuovo, rispondeva: “È il comandamento del Signore: non ve n’è un altro e questo è sufficiente!”.

Nessuno tra loro era povero!   Per una specie di deformazione culturale, quando parliamo di ‘verità’, siamo sempre portati a ritenerla come un oggetto della mente, che si propone ad altri discorsivamente, per via logica. E la scuola ci abitua da piccoli a questo sterile razionalismo. Anche la chiesa, in quanto struttura, può ridursi a ideologia e a diritto canonico, a freddo dogmatismo e a fastose liturgie. Ma, nella ‘fede’ non c’è iato fra parola e azione, fra ortodossia e ortoprassia: Verbum Dei caro factum. In Dio la parola ha valore ontologico: Dio disse Luce e fu Luce. Nell’uomo, invece, la parola resta flatus vocis. Cristo non ha consegnato il suo messaggio ai sapienti e ai teologati. Ne avrebbero fatto una dottrina, una filosofia, una cultura. L’annuncio di Cristo è destinato a diventare corpo reale. Perciò egli scelse dei pescatori, che non erano intellettuali. E proprio questo gruppo disprezzato dalla cultura ufficiale ha avuto l’incarico di tradurre la verità in prassi, l’annuncio in esistenza. Come? “Nessuno tra loro era povero” (At 4,32). Dobbiamo leggere questa indicazione non come un dato di cronaca della chiesa primitiva, ma come una proiezione della speranza, come un’esigenza di tradurre la fede nel Risorto in un nuovo stile di vita. La fede, quando è vera fede, rimette in discussione i rapporti economici.

Ogni cosa era tra loro in comune   Il fatto che “ogni cosa era tra loro in comune” (At 4,32) è diventato come l’emblema della vita monastica. Esistono almeno due errori nell’interpretazione di questo brano:  il primo è quello di ridurre la comunità a un fatto sentimentale, a un generico “volemose bene… embrassons nous”; ma la comunità è molto più che una labile coincidenza di sentimenti. L’altro errore consiste nell’esaltazione della povertà; ma Atti 4,32, non esaltano la povertà: “Non c’era tra loro nessun bisognoso”. Se tra noi ci sono ancora dei bisognosi, vuol dire che siamo ancora lontani dal regno di Dio. Non è la povertà che conta, ma l’amore. Il vero modo di vivere la povertà evangelica è usare le cose come segno dell’amore. Fare a meno delle cose è ascetica pagana. Il filosofo cinico Cratete, per dimostrare la sua superiorità sulle ricchezze, aveva con orgoglio gettato in mare le sue ricchezze: “Cratete libera Cratete!”; forse, sarebbe stato molto più saggio distribuire, condividere, fare festa insieme. L’imperativo della Scrittura non è il cinico rifiuto delle cose e dei piaceri della vita: “Dio li benedisse con queste parole: Siate fecondi, diventate numerosi, popolate la terra e governatela” (Gn 1,28). L’abbondanza e il successo sono segni di benedizione, purché non diventino occasione di divisione tra gli uomini.

Prima stazione della “Via della Gioia”   Dopo la risurrezione, Gesù, con pazienza e tenerezza, ha tentato di svegliare i suoi apostoli alla gioia. La prima stazione, davanti alla quale fermarci, è quella di Tommaso l’incredulo, un autentico uomo di oggi, uno che crede solo a quello che tocca: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, non crederò!” (Gv 20,25). C’è qualcosa di grande e di puerile insieme, in questa rabbia di Tommaso. Tommaso si mise contro tutti. Il primo ‘protestante’ della storia è lui! Se fosse stato conformista, sarebbe diventato un mediocre cattolico e mai avrebbe detto: “Mio Signore e mio Dio!”. Diventando un protestante, si è preparato ad essere un fervente cattolico. Gli apostoli erano tanto infuriati per la sua ostinazione che volentieri lo avrebbero preso a pugni per costringerlo a credere. Gesù, però, si è schierato dalla parte di Tommaso: “Tommaso, ecco il mio corpo. Fa’ quello che vuoi!”. Non c’è stato peggior castigo per Tommaso che ottenere quanto aveva chiesto! Adesso non aveva più voglia di verificare; avrebbe dato qualunque cosa pur di non mettere le sue mani nelle piaghe di Gesù, per non sentire quel dolce rimprovero: “Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno!” (Gv 20,29). Doveva invece toccare, per pentimento; non come chi vuole accertarsi, ma come chi compie un pellegrinaggio. Folgorato, è caduto in ginocchio: “Mio Signore e mio Dio!”. E’ il primo che chiama Gesù “Mio Dio”. Da questo Tommaso dubitante e violento, Gesù ha ricavato il più bell’atto di fede. Questo è il lavoro del Signore: fare di tutte le nostre colpe delle felici colpe. Facciamo a Dio l’unico dono possibile quaggiù: credere a Lui un po’ prima di averlo visto, credere al cielo un po’ prima di entrarci!

La difficoltà di credere   Il dubbio di questo apostolo è diventato proverbiale. A chi manifesta qualche diffidenza anche noi oggi diciamo: “Sei incredulo come Tommaso!”. Eppure chiedeva di vedere quello che gli altri avevano visto. Perché il solo Tommaso doveva credere sulla parola degli altri? E poi, davvero Tommaso è stato l’unico ad avere dubbi? Non sembra. Nel vangelo di Marco, leggiamo che Gesù “rimproverò gli apostoli per la loro incredulità e durezza di cuore” (Mc 16,14). Nel vangelo di Luca, Gesù chiede agli apostoli spaventati: “Perché sorgono dubbi nel vostro cuore?” (Lc 24,38). Nel vangelo di Matteo addirittura leggiamo che, quando Gesù apparve ai discepoli su un monte della Galilea (quindi molto tempo dopo le apparizioni a Gerusalemme), alcuni discepoli ancora dubitavano (Mt 28,17). Cerchiamo di capire:

Quando Giovanni (o chi per lui) scrive il suo vangelo verso il 95 d.C., Tommaso è già morto e dunque l’episodio non viene raccontato per mettere in cattiva luce Tommaso. Il motivo è un altro: Giovanni vuole rispondere ai cristiani della “terza generazione” che non avevano conosciuto il Signore, e quindi fanno fatica a credere. Anche loro vorrebbero vedere e toccare. Ci sono delle prove che egli è vivo? Perché non appare più? Sono le domande anche di oggi. Giovanni risponde e prende a esempio Tommaso.

Difficile sapere perché ha scelto proprio Tommaso. Forse perché in episodi precedenti Tommaso è l’apostolo che si pone troppe domande (cfr Gv 11,16 e Gv 14,5). Sembra che Giovanni si diverta con Tommaso, ma alla fine gli rende giustizia, gli mette sulla bocca la più alta professione di fede: Gesù era stato chiamato rabbì (Gv 1,38), messia (Gv 1,41), figlio di Dio (Gv 1,49), salvatore del mondo (Gv 4,43), profeta (Gv 6,14), Signore (Gv 9,38), re dei giudei (Gv 19,19), ma Tommaso è stato il più profondo: Mio Signore e mio Dio (Gv 20,28).

 L’inventore del “principio di verificabilità”   Il vangelo di oggi viene in aiuto all’uomo contemporaneo, che crede solo a quanto può verificare. San Gregorio Magno ha scritto che con la sua incredulità Tommaso ci è stato più utile di tutti gli altri apostoli, perché egli con i suoi dubbi ha costretto Gesù a darci una prova tangibile della sua risurrezione. La critica, il dialogo, con i tanti Tommaso di oggi, se svolti nella lealtà della ricerca, sono di grande utilità, per chi crede e per chi non crede. Il credente prende atto che la sua fede non è un privilegio, che la fede non va ‘dimostrata’ con la ragione ma ‘mostrata’ con la vita. Il confronto con chi non crede aiuta anche a purificare la fede da rappresentazioni grossolane. Quando la fede viene meno, restano in piedi le sue strutture, le crisalidi morte, gli involucri vuoti. Noi a volte ci trasciniamo dietro strutture senz’anima, parole senza senso, simboli senza vita. Ecco perché la secolarizzazione può diventare una preziosa occasione per purificare la fede dai tanti giocattoli sacri, che riempiono la nostra religiosità. Spesso quello che i non-credenti rifiutano non è il vero Dio di Gesù Cristo, ma una sua immagine distorta, colpevoli anche i cristiani.

Nella carne sofferente, non nel potere!   Tommaso voleva vedere, toccare, palpare. E Gesù glielo ha concesso. Non dimentichiamo mai che i nostri sensi sono quanto di più umano abbiamo. Per questo tutti siamo con Tommaso. Gesù lo ha capito e lo ha accettato. Ma cosa ha visto e toccato Tommaso? Piaghe di dolore e di morte. Ed in questo pellegrinaggio nella sofferenza, Tommaso ha scoperto la fede: “Signore mio e Dio mio!”. È splendido! Oggi la presenza di Gesù sta in quelli che, cercandolo, trovano sofferenze e morte. Se, al posto di questo, trovano potere e ricchezze, non potranno dire: “Signore mio e Dio mio!”. Non dobbiamo meravigliarci se si svuotano le chiese, si abbandonano i conventi, i preti si sentono screditati ed i vescovi si vedono criticati. Già nel secolo XII san Bernardo aveva scritto al suo amico, il papa Eugenio III (tra il 1145 ed il 1152): “Quando il papa, rivestito di seta, coperto di oro e di pietre preziose, avanza su un cavallo bianco, scortato da soldati e servi, sembra più il successore di Costantino che quello di san Pietro” (Y. Congar, Per una Chiesa serva e povera, 2014]). Per questo bisogna domandarsi: seguiamo Gesù o seguiamo Costantino? La nostra chiesa sa ancora troppo di Giustiniano! Vogliamo entrare nelle baraccopoli o nella sala di comando? Vogliamo servire o essere serviti? Perché la chiesa non sbagli, c’è una strada infallibile: stare dalla parte degli ultimi, non andare a braccetto con i potenti!

Il primo giorno dopo il sabato   L’evangelista Giovanni, con la sua insistenza sul dato cronologico (per due volte “nel primo giorno dopo il sabato”: Gv 20,19), vuole insegnarci che la domenica, cioè “il primo giorno dopo il sabato”, diventa il dies Domini, ‘domenica’ appunto. Quando il cristianesimo divenne la religione dominante, la domenica prese il posto del sabato ebraico (שבת), e nella domenica i cristiani possono osservare il comandamento “Ricordati di santificare le feste”. Santificare le feste significa fare tre cose:

fare della domenica un giorno “per Dio”: dopo sei giorni di lavoro, di occupazioni, di preoccupazioni, è necessario fermarsi, riflettere, pregare, e la partecipazione alla messa domenicale diventa l’occasione privilegiata;

fare della domenica un giorno “per se stessi”: Dio ha stabilito per l’uomo un giorno per riposare, stare in famiglia, ritrovare la libertà; l’uomo ha bisogno di staccare la spina, andare allo stadio, in discoteca… il male comincia quando questi momenti di festa vengono caricati di attese esagerate o assumono forme pericolose come orari, alcolici, stupefacenti, violenza;

fare della domenica un giorno “per gli altri”: si può, si deve trovare il tempo per fare del bene, per essere utile a qualcuno, per fare fiorire la gioia sul viso di un anziano o di un malato; anche questo è un modo di santificare la festa. Buona vita!