La Domenica di Don Franco: “…Non bisogna sperare dal cielo interventi che dispenserebbero gli uomini dall’assumere le proprie responsabilità…”

24 Aprile 2022 - 08:42

24 aprile 2022  II Domenica dopo Pasqua (C)

Un credente crede ai miracoli, ma non per i miracoli

Prima lettura Aumentava il numero di coloro che credevano nel Signore (At 5,12). Seconda lettura: Io ero morto, ma ora vivo per sempre! (Ap 1,9). Terza lettura: Otto giorni dopo, venne Gesù (Gv 20,1).

La domenica “della fede e della fiducia”. Che cosa Tommaso non riesce a credere? Che dalla morte possa scaturire la vita, che non è la morte ma la vita ad avere l’ultima parola. L’incredulo Tommaso non riesce ad andare oltre: insiste su “il segno dei chiodi”, il “posto dei chiodi”, il “costato squarciato”. Tommaso non crede alla parola, alla testimonianza degli apostoli: “Gli dissero gli altri discepoli: Abbiamo visto il Signore”. Tommaso cerca delle visioni, delle manifestazioni straordinarie e personali del Risorto: non gli basta la parola, quella parola conservata e tramandata nella Scrittura. Beati quelli che pur non avendo visto crederanno! Credere non è comprendere ma rischiare. La domanda fondamentale che tormenta e divide i cristiani attuali mi sembra questa: dove trovare Dio? Oggi l’assenza e il silenzio di Dio costituiscono uno scandalo crescente per i suoi fedeli. Dio non ha più posto nelle scienze, orgogliose di non avere più bisogno di lui per spiegare i fenomeni scientifici. Dio non è più indispensabile in morale: gli atei hanno regole di condotta talvolta più generose e rigorose dei cristiani. Dio non è più il conservatore dell’ordine sociopolitico; la nostra stessa Repubblica non è fondata su Dio ma sul lavoro. La frase meravigliosa di Giovanni “Nessuno ha mai visto Dio” (1,18) riceve nel nostro tempo una terribile conferma. Ma allora cosa resta del cristianesimo? Giustamente l’essenziale. Gesù ha annunciato, preparato e vissuto una vita pienamente umana, la sola che possa diventare poi pienamente divina. Per Cristo le nostre relazioni con Dio coincidono con le relazioni umane. Non bisogna sperare dal cielo interventi che dispenserebbero gli uomini dall’assumere le proprie responsabilità, e dal compiere il proprio dovere fino in fondo.

Durante la quaresima abbiamo certamente fatto la “Via della croce”. E’ giusto, è una cosa molto utile! Dopo Pasqua, però, siamo invitati alla “Via della gioia”. Non esiste niente di simile nelle nostre devozioni. E’ un male, perché queste “stazioni della gioia” dovrebbero essere altrettanto frequentate e meditate quanto le “stazioni della croce”. Percorreremo insieme, queste domeniche, la “Via della gioia”. Mediteremo sulle apparizioni del Risorto, con le quali egli con pazienza e tenerezza ha tentato di svegliare i suoi apostoli alla gioia. I cristiani, a volte, sembrano essere i professionisti della disgrazia, specializzati in funerali! Intervengono volentieri quando le cose vanno male. Quando occorre diffondere la gioia, non sanno più cosa fare. La spiegazione forse è questa: nella tristezza, ricerchiamo noi stessi e ci ritroviamo. Fingendo di compiangere gli altri, e il Signore, in realtà noi compiangiamo noi stessi. Senza dubbio, la gioia cristiana non è facile! E’ una tristezza superata! Il cristiano non è ottimista! Chesterton ha detto che l’ottimista è uno stupido felice, e il pessimista uno stupido infelice. Noi crediamo che il mondo è stato redento non dal dolore e dalla croce, ma dall’amore e dalla grazia del Signore. Crediamo che l’uomo è potente nel male, ma che Dio è onnipotente nel bene. Crediamo che Dio è colui che fa delle nostre colpe una felice colpa! Crediamo che le nostre più gravi malattie possono lasciarci il ricordo, l’amicizia, l’intimità con il medico che ci ha curati così bene.

La prima stazione è quella di Tommaso l’incredulo, un autentico uomo di oggi, uno che crede solo a quello che tocca, uno che non vuole più cadere nelle illusioni. Per lui, il peggio è sempre la cosa più sicura. La violenza della sua rivolta ce lo rende contemporaneo: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, non crederò”. Una durezza così spietata non può derivare che da una terribile sofferenza. Proprio perché ha sofferto più degli altri apostoli, proprio per il rimpianto di non aver saputo morire per il suo Maestro, ora si rifugia nella disperazione. Essere morti fa meno male che essere vivi. C’è qualcosa di grande e di puerile insieme in questa rabbia di Tommaso e dell’uomo contemporaneo. Colui che pretende di non avere più speranza, è uno che spera di non sperare. Chi pretende di non credere a niente, è uno che crede di non credere a niente. Chi afferma che tutto è incerto, fa un’affermazione che crede certa, almeno lui. Chi dice di non avere illusioni, ne è pieno. E’ una strana epoca la nostra! Non c’è mai stata così poca fede, non si è mai stati così atei, così disperati e negativi. Ma in nessun’altra epoca si è mai tanto sofferto di mancanza di fede. Soffrire di non amare qualcuno è già il segno del vero amore. Soffrire di non poter credere e sperare, io penso sia la forma di fede della nostra epoca, una forma discreta, tragica, ma sincera e leale

Tommaso si mise contro tutti. Il primo protestante della storia è lui! Se fosse stato conformista, sarebbe diventato un mediocre cattolico e mai avrebbe detto: “Mio Signore e mio Dio!”. Diventando un protestante si è preparato ad essere un fervente cattolico. Gli apostoli erano tanto infuriati per la sua ostinazione, che volentieri lo avrebbero preso a pugni per costringerlo a credere (è il metodo della violenza cattolica che conta numerosi seguaci, ieri e oggi!). Cristo però si è schierato dalla parte di Tommaso. “Tommaso, ecco il mio corpo. Fa’ quello che vuoi!”. Non c’è stato peggior castigo per Tommaso dell’aver ottenuto quanto aveva chiesto! Adesso non aveva più voglia di verificare; avrebbe dato qualunque cosa pur di non mettere le sue mani nelle piaghe del Cristo, per non sentire quel dolce rimprovero: “Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno”. Doveva invece toccare, per docilità, per pentimento; non come chi vuole accertarsi, ma come chi compie un pellegrinaggio. Folgorato, è caduto in ginocchio: “Mio Signore e mio Dio!”. E’ il primo che chiama Cristo “Mio Dio”. Da questo Tommaso dubitante e violento, Cristo ha ricavato il più bell’atto di fede. Questo è il lavoro del Signore: fare di tutte le nostre colpe delle felici colpe. Stiamo attenti! Le nostre preghiere sono sempre esaudite, e il Signore è a volte così buono da ascoltare anche le preghiere sbagliate. Concede al figlio prodigo la parte di eredità che gli spetta, pur sapendo quale triste uso ne farà. Calma la tempesta sul lago, ma poi rimprovera gli apostoli perché non hanno fede. Felici noi se saremo saggi, se avremo un po’ di pazienza e di fiducia! Più che per le grazie ricevute, ringrazieremo Dio di non esserci comportati come un bambino viziato, che impone le sue esigenze a una bontà di cui è perfettamente sicuro. Facciamo a Dio l’unico dono possibile quaggiù: credere a Lui un po’ prima di averlo visto, credere al cielo un po’ prima di entrarci! Buona vita!