Le MOGLI di Mimì Mazzacane e Salvatore Belforte ricevano, uno per uno, imprenditori grossi e riscuotevano in loco. Le differenze con il caso di Giuseppina Nappa e delle donne dei CASALESI
3 Agosto 2019 - 13:06
MARCIANISE – Lo stralcio che abbiamo scelto di pubblicare oggi non fornisce un contributo originale alla conoscenza dei fenomeni criminali, legati al clan Belforte Mazzacane di Marcianise. Ma dalla lettura attenta di un passo si riesce a formulare delle valutazioni molto interessanti sul ruolo delle donne del clan Belforte, confrontabile con quello delle donne di altri clan.
Attenzione, sul terreno della valutazione storica, non sono assimilabili al ragionamento quei fenomeni, suppur rari, di donne, soprattutto vedove dei grandi boss, che hanno, ad un certo punto, assunto le redini del comando del gruppo criminale.
Qui stiamo parlando di supplenza di mogli che da un lato hanno i mariti in carcere, dall’altro dei figli ancora minorenni e non in grado di operare, ma che devono affrontare la necessità di gestire quella che è una vera e propria azienda. Perchè l’industria delle estorsioni del clan Belforte ha prodotto un gettito che non esageriamo a definire miliardario, nel senso dei miliardi di euro e non solo dei miliardi di lire, come valore finanziario precedente all’avvento della moneta europea.
E allora ecco che le due “signore”, le mogli dei capi, cioè Maria Buttone, consorte di Mimì Mazzacane, Concetta Zarrillo, moglie di Salvatore Belforte diventano gli unici terminali autorizzati dai mariti per incassare i soldi importanti, quelli versati dagli imprenditori ad altissimo fatturato. I grossi possono parlare solamente con loro due.
Il collaboratore di giustizia Antonio Farina, capo del cartello di Belforte sulla piazza di Maddaloni, lo racconta in maniera precisa. Esiste un metodo. Quelli che pagano super tangenti non solo le versano direttamente alle due mogli, ma parlano e si confrontano solo con loro; la pletora degli imprenditori più piccoli, quelli dei ratei estorsivi stabilmente versati alle canoniche scadenze di Pasqua, Ferragosto e Natale, si rapportano ai vari Bruno Buttone, Michele Froncillo, Gino Trombetta, Gaetano Piccolo e Domenico Cuccaro.
E’ vero che per un lungo periodo, come tutti sanno a Casal di Principe, Giuseppina Nappa, moglie di Francesco Schiavone Sandokan, ha contato, nelle decisioni operative, molto di più di quanto non s’immagini e di quanto non sia stato accertato nelle inchieste giudiziarie. E’ successo fino a quando il figlio Nicola che, attenzione, è diventato camorrista dopo aver frequentato una delle scuole più esclusive di Napoli, in zona Posillipo, non ha preso le redini.
Però, anche quando Giuseppina Nappa contava anche come parte attiva e non solo come ricettrice dei 10mila o 20mila euro al mese che il clan gli garantiva, non è stata mai nominalmente un capo. Cioè non ci sono elementi per affermare che, al pari della Buttone e della Zarrillo, ricevesse direttamente lei dalle mani degli imprenditori, dei soldi.
In poche parole, c’è stato sempre un reggente, Nicola Panaro fino a quanto Nicola Schiavone non è cresciuto, che ha svolto la funzione di ultimo filtro fra la cascata di danari che arrivavano dalle estorsioni e l’introduzione di una parte di questi nelle casse della famiglia del capo dei capi.
QUI SOTTO LO STRALCIO DELL’ORDINANZA