LA NOTA. Quell’inchino della Madonna delle Grazie sotto casa di Michele Maravita. Quello non è Carlo Marino, forse è l’assessore Alessandro Pontillo, ma conta solo la fascia tricolore

4 Giugno 2020 - 14:35

CASERTA – La fotografia sfocatissima dell’uomo in fascia tricolore che attende la digressione della statua della Madonna delle Grazie dal suo percorso ordinario per andare a far visita alla dimora di Michele Maravita in via Petrarelle, non deve essere necessariamente vivisezionata, esaminata da periti sopraffini, scannerizzata e photoshoppata allo scopo di stabilire l’identità di chi quel giorno indossava la fascia tricolore.

Nel senso che noi lo stiamo anche facendo per dovere di cronaca, ma non lo riteniamo un punto dirimente nella valutazione di questa vicenda.

Anche a Caserta, dunque, ci sarebbe stata la turpe cerimonia dell’inchino.

Il clan dei Casalesi, formato da gente più concreta, più sobria e anche più intelligente, non avrebbe mai compiuto un errore del genere, e infatti non si hanno notizie di processioni convogliate verso le case dei boss.

L’affermazione di una mentalità iper-imprenditoriale ha portato, infatti, i Casalesi a orientare le proprie priorità sulle grandi trame economico-criminali.

Insomma, cose come quella successa durante la processione che parte ogni anno da Santa Barbara trovano riscontro in Sicilia, qualche volta in Calabria, in un contesto in cui il radicamento territoriale dei capi delle varie cosche o delle varie ‘ndrine, ha la necessità di confermarsi stabilmente attraverso i segni di una presenza storico-familiare che ha nel malinteso e aberrante senso di una religiosità che in realtà non esiste, il suo tratto fondamentale.

Ma quella è la Sicilia, quella è la storia della mafia, nata decenni e decenni prima della sua manifestazione più moderna di Cosa Nostra. Esiste un’identità arcaica che proviene dalle relazioni sociali di un feudalesimo, quello dei grandi latifondisti, durato per tantissimi secoli, fino agli anni ’50, e rotto da un meccanismo di rivalsa che, non a caso la mafiosità sui generis di Salvatore Giuliano colpisce nel 1 maggio di sangue di Portella delle Ginestre, quando i braccianti, i servi della gleba che alzavano la testa insieme ai sindacati, vennero letteralmente sterminati.

Il latifondista è l’uomo di rispetto ed è perfettamente normale che l’icona, in quel caso vuota di ogni valore, di un santo, della Vergine, o di un Cristo, passi sotto casa sua per attestare finanche la sudditanza della religione al potere del potente, che poi nel corso delle generazioni ha allevato la maggior parte di quelli divenuti a loro volta capi-cosca o capi-clan.

Michele Maravita cosa c’entra con questa tematica socio-antropologica? Un tubo. Probabilmente aveva visto in televisione qualche notizia del genere e menomale che non ha mai pensato di portare una banda di musica sotto casa sua a suonare la colonna sonora di una caricatura de “Il Padrino”.

Quella fascia tricolore. Insomma, il variopinto Maravita, per dirlo alla De Luca un boss un po’ cafone, trasforma l’inchino in una macchietta, riproducendo un clichè.

E siccome anche le varie delinquenze sono divenute molto conformiste, ciò fornisce un assist al bacio a chi racconta questi eventi copincollando a sua volta un proprio clichè narrativo.

Insomma, quella povera fascia tricolore si è fatta di lato e ha atteso che la processione esaurisse questa sua parentesi.

Si è messa lì in attesa, aggiungendo alla negatività di una non-reazione docilissima rispetto a una situazione che avrebbe necessitato l’intervento di quel tricolore nei confronti del sacerdote che ha deciso di portare la statua nei pressi della Maravita’s house, allo stesso tempo il tricolore dell’Italia si è trovato anche nel bel mezzo di una vicenda ridicola, cafonal, che ha assimilato la sua cafonaggine, il suo carico di grossolanità, ai tre colori della bandiera.

Vedete, ci siamo anche scordati, nell’articolo, di tenere aperta la questione dell’identità di chi quella fascia abitasse quel giorno

È successo perché il nostro ragionamento è andato altrove. Semplicemente, il Comune di Caserta, come fa ogni giorno con le procedure con cui gestisce la cosa pubblica, con l’abbandono che ha inflitto alla città capoluogo, ha disonorato il suo ruolo.

Questo lo ha fatto a prescindere dalla carta d’identità di chi ha portato quella fascia durante la processione.La foto è pressoché ininterpretabile. Sicuramente possiamo dire che quello non sia il sindaco Carlo Marino. Forse si tratta dell’assesdorevl Alessandro Pontillo o  di qualche altro componente dell’Amministratore comunale.mi

Ma il punto non è questo.

Tutto il brutto, che ripetiamo, non è legato solo al clichè dell’inchino, si racchiude e riassume in una fotografia che assolve al compito più importante: perché la faccia è irriconoscibile, ma la fascia è lì e si vede benissimo.