Sparato alla testa. Secondo per secondo, le fasi del delitto Russo. La “telefonata-bacchetta” dei Belforte per far accusare i Quaqquarone

23 Agosto 2019 - 12:00

MARCIANISE(g.g.) Fa sempre impressione leggere le fasi di un delitto di camorra raccontate da un testimone oculare. Un’esecuzione, ordinanza da Domenico Belforte, eseguita in un’officina di Recale, con il titolare che, al primo colpo di pistola, si nasconde dietro ad un’auto ed assiste alla fine di una persona con cui aveva parlato fino a pochi secondi prima. Ciò è contenuto nello stralcio che pubblichiamo oggi. E il racconto riportato è quello che fece Pasquale Mezzacapo, titolare dell’officina e cugino di quel Giovanni Battista Russo ammazzato per motivi ancora non chiari.

Forse per essere stato testimone scomodo dell’omicidio di Giuseppe Farina, forse per un’antipatia maturata nel tempo da parte di Mimì Belforte. I colpi alla testa, quelli al corpo sono descritti in maniera minuziosa nei passi dell’ordinanza che pubblichiamo qui sotto.

Un’altra cosa che ci racconta questo atto giudiziario, è l’impossibilità di trovare nel tempo in cui si consumarono, i mandanti e gli autori di molti delitti. Eppure, come leggerete, i carabinieri, durante tutto il 1997, ascoltarono una carovana di persone.

Al di la delle descrizioni del delitto fatte fa Mezzacapo, il quale avendo chiamato il 112 non poteva esimersi parlando comunque di due persone entrambe travisate da una calza nera, c’è poco altro. Paura e omertà. “Reticente”, così viene etichettato l’interrogatorio di Maria Russo, figlia di Giovanni Battista Russo. La ragazza, neanche si trattasse di una di quelle donne con lo scialle nero dell’Aspromonte o di Corleone, arriva a dichiarare addirittura che nella sua famiglia, neppure per un secondo, si è parlato dell’omicidio del padre. Men che meno del movente.

Insomma, per farla breve, se 10 o 12 anni dopo non fossero arrivati i pentiti, questo delitto sarebbe rimasto insoluto, com’è successo al tempo, precisamente nel novembre 97, allorquando il tribunale di Santa Maria Capua Vetere chiuse questa indagine, archiviandola come irrisolta.

Ultima citazione, sicuramente molto interessante: la camorra spara, uccide, sfigura le proprie vittime. Ma la stessa camorra sa anche utilizzare lo strumento della furbizia. Conosce l’arte della bacchetta.

Pochi minuti dopo la consumazione del delitto, arriva una telefonata ai carabinieri in cui, oltre a dar notizia dell’omicidio, un uomo con accento spiccatamente dialettale, dice anche che ad ammazzare Giovanni Battista Russo erano stati i due cugini omonimi Achille Piccolo, cioè il figlio di Angelo Piccolo e il figlio di Antimo Piccolo, fondatori del gruppo dei Quaqquarone, frutto della scissione dell’area cutoliana sin dai tempi dei boss Cutillo e Delli Paoli.

Ed effettivamente i carabinieri fanno irruzione a casa di Achille Piccolo. Questi scappa, avvalorando in un primo momento l’idea di una connessione con il delitto di Russo. In quella casa, lasciata in fretta e furia, i carabinieri la pistola Luger calibro 9. Tutte le perizie successive, però, esclusero categoricamente che fosse i colpi mortali fossero partiti da quell’arma.

Per cui, si capisce che quella telefonata arrivava probabilmente dal clan Belforte con l’obiettivo di prendere addirittura due piccioni con una fava: la soppressione di Giovanni Battista Russo e l’incriminazione dei rivali, cioè i Quaqquaroni per questo delitto.

“La bacchetta” non riuscì, ma ci sono comunque voluti quasi 20 anni affinchè i collaboratori di giustizia cominciassero a raccontare come andarono realmente le cose quel pomeriggio del dicembre 96 davanti all’autofficina di via Santa Caterina, dove Russo fu ucciso mentre aspettava l’arrivo del suo amico e socio di fatto Vincenzo Salzillo.

 

 

QUI SOTTO LO STRALCIO DELL’ORDINANZA