L’EDITORIALE. E’ morto Emiddio Novi: perché, checché se ne dica, il mio primo direttore fu un grande direttore

24 Agosto 2018 - 13:26

di Gianluigi Guarino

 

Emiddio Novi, morto oggi in circostanze incredibilmente tragiche, schiacciato da un camion rifiuti nella natia Sant’Agata di Puglia, è stato il mio primo direttore. Capitò quando io, giovane cronista, muovevo i primi passi, guadagnando zero lire, nella redazione di Benevento de “Il Giornale di Napoli”.

Emiddio Novi visse tutta la prima fase della parabola ascendente di Silvio Berlusconi, cioè dell’imprenditore di successo sceso in campo in politica e talmente forte nella simpatia e nel consenso del paese da riuscire incredibilmente a superare decine e decine di tempeste giudiziarie che lo coinvolsero da quel fatidico giorno in cui un carabiniere o un finanziere, il particolare non lo ricordiamo con precisione, lo aspettò nella hall dell’albergo napoletano, dove si trovava quale padrone di casa di un G7 che aveva vissuto poche ore prima, nella cena di galà, uno dei sui più importanti momenti nelle sale nobili della Reggia di Caserta, notificandogli un avviso di garanzia, nel caso specifico un invito a comparire, al cospetto di tutti i principali mezzi d’informazione del pianeta.

Novi fu accusato di tutto e di più: di servilismo sciocco, di piaggeria penosa, di attività manipolatoria dei fatti e delle ragioni. In pratica di essere un arruffapopolo che intravedeva, finalmente, uno sdoganamento professionale e politico.

Al tempo chi abitò, da giornalista assunto o anche da semplice collaboratore le redazioni di quel quotidiano partecipò, per la prima volta, ad un’esperienza prima culturale e poi conseguentemente emotiva, attraverso cui ognuno di noi, dai più giovani fino ai redattori più anziani, quelli che la sudditanza e la conseguente emarginazione professionale l’avevano vissuta sulla propria pelle negli anni 70 e 80, prendevano a calci, con una sorta di rito liberatorio, lo storico complesso d’inferiorità che faceva di un professionista tirato a sinistra un vero giornalista e di un professionista tirato altrove poco più di un mentecatto, sicuramente semi analfabeta.

La prosa che Emiddio Novi sciorinava ogni mattina nel suo immancabile editoriale non era forse il massimo che c’era per delineare  un perimetro stabile e duraturo di un campo di azione liberale e che partendo dal liberalismo andasse a costituire, a quasi un secolo di distanza, un forte, competitiva, proposta politica alternativa a quella di una sinistra al tempo condannata dalla storia, ma che trovava soprattutto nella magistratura partigiana e ideologizzata  una possente arma pratica per conservare quell’egemonia culturale e morale che affondava le sue solide radici in quello che Enrico Berlinguer aveva teorizzato, ai tempi in cui il socialismo craxiano si configurava come una minaccia alla sopravvivenza del Partito Comunista.

Emiddio Novi si batté contro quella che, non a torto, definiva la vera struttura, l’inveterato apparato che riusciva attraverso le ragioni di una politica dimostratasi fallimentare sia nell’impero, ormai sgretolato, d’Oltre cortina, sia di quella uscita fuori dal tentativo euro-comunista che lo stesso Berlinguer, senz’altro lungimirante ma anche un po’ disperato e con le spalle al muro, cercò di mettere in piedi con i suoi omologhi francesi e spagnoli, Georges Marchais e Santiago Carrillo.

Novi si infuriava e lo faceva a modo suo perché la propria testimonianza non finiva con la scrittura dell’editoriale ma continuava, in una sorta di onda lunga di una trance, nelle discussioni che aveva con la sua redazione alla quale dava ulteriore esplicazione delle sue ragioni fino a diventare ogni giorno immancabilmente afono.

Ora, uno che si comporta così, (e noi che gli siamo stati vicini sappiamo bene che la sua passione e la testimonianza delle sue convinzioni prevalevano su ogni altra ragione legata ad eventuali interessi ad una carriera politica che pur portò avanti, con l’elezione a senatore in alcune legislature) non può essere ricordato con l’etichetta convenzionale di uno che ha servito un padrone che poi l’ha ricompensato. La personalità di Emiddio Novi sopravviveva a quella che poi si sarebbe rivelata la grande illusione berlusconiana che però, al tempo, si rappresentò come l’unica arma, l’unico porto sicuro per chi aveva assistito con sconcerto e autentico stranimento, dal febbraio del 1992 in poi, alla distruzione della cosiddetta Prima Repubblica, dei partiti e delle ideologie a cui aveva creduto ma che aveva anche visto con rabbia l’altra faccia della stessa medaglia, l’ingiusto esercizio del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, usato in maniera selettiva come sterminio dei democristiani e socialisti craxiani e come semplici punture di spillo che non mettevano in discussione l’integrità della storia del Partito Comunista.

La sua prosa fiammeggiante che alternava insospettabilmente efficaci digressioni culturali, con utili chiamate alle armi del popolo anti comunista, diventò una sorta di gradiente che teneva insieme il popolo composto da defraudati e da innovatori in buona fede, insomma Novi riuscì a costituire una nuova unità culturale che confinava in una secondaria e tutto sommato, al tempo, pleonastica, nicchia di sparuti analisti culturali, il fatto che Novi veniva avvertito anche da certe elites di un liberalismo post-giolittiano più come un uomo della destra tout-court e molto meno della destra liberale.

Ma questa era la parte in controluce. In realtà, quegli editoriali ebbero, in quanto ampiamente diffusa nella loro valutazione, la funzione principale di una specie di toccasana per chi, la sera prima, aveva dovuto sorbire la quotidiana razione di anti-berlusconismo al tempo preconcetto dei vari Biagi, Santoro e compagnia.

Emiddio ci regalò tante mattinate felici, motivando uno spogliatoio che, nel contesto conformista del giornalismo napoletano, cercava solo di legarsi a un’idea e a un condottiero che la portasse avanti.