L’EDITORIALE. Ci sono ancora ditte in odore di camorra vispe e attive negli appalti e nelle proroghe infinite dell’ASL CASERTA. La lotta alla corruzione è l’unico modo per colpire il monopolio economico creato dal clan dei Casalesi
26 Luglio 2022 - 14:40
L’ennesimo articolo che pubblichiamo in homepage sotto a questa nostra riflessione, ci dà la possibilità di tornare su una realtà sotto gli occhi di tutti e che vede lo Stato pigro e inerme di fronte all’evoluzione, alla modernizzazione dei metodi di controllo dell’economia da parte della criminalità organizzata. Uno Stato che ancora si culla sugli allori della caccia grossa ai super latitanti e dalla quale sono trascorsi quasi undici anni. E così capita che alle gare d’appalto, grandi e piccole, e nell’elenco ministeriale Mepa ci siano solo e solamente imprese dall’agro Aversano e specificatamente dai comuni contigui a quello di Casal di Principe
di Gianluigi Guarino
Non c’è niente da fare: l’ASL di Caserta si è riempita di guai negli ultimi dieci anni.
Si dirà: ma se Casal di Principe ha dettato e in parte detta ancora legge, grazie ai soldi frutto di matrici tutt’altro che commendevoli, grazie al concorso criminale del clan dei Casalesi; se questo microclima ha fatto sì che l’economia di quei territori esplodesse letteralmente attraverso i tanti danari che venivano immessi nelle imprese che negli anni Novanta e nei primi anni Duemila nascevano e proliferavano come funghi, che colpa abbiamo noi dell’Asl di Caserta, dell’amministrazione provinciale, del comune capoluogo o di tanti altri enti ancora, se le gare di appalto si svolgono come se il
Oggi, in questo schifo di provincia, chi ha i soldi, la forza, e anche l’attitudine a discutere in un certo modo con chi rappresenta, spesso indegnamente, lo Stato italiano negli uffici della pubblica amministrazione, sono solo e solamente le imprese dell’agro Aversano.
L’economia criminale ha in pratica creato una nuova struttura produttiva dei beni e dei servizi, stravolgendo la conformazione del Pil territoriale. E se il clan dei Casalesi è stato arginato da un punto di vista militare, il clan dei Casalesi ha vinto, anzi, stravinto rispetto al principale obiettivo della sua strategia, cioè quello di creare ricchezza, tanta ricchezza di cui non godranno i superboss incarcerati, ma quella serie di persone e personaggi, ricadenti nella cosiddetta zona grigia che oggi sono diventati ricchissimi, al di là, molto al di là delle loro effettive capacità
Perché se oggi andate a controllare le liste dei partecipanti alle gare sopra soglia, degli invitati alle gare sotto soglia e ancora più in generale andate a controllare i dati sulle sedi, le persone e le derivazioni delle imprese iscritte in quell’autentico verminaio che il governo dovrebbe abolire e di cui la tanto decantata Commissione Antimafia del parlamento italiano non si è mai occupata, parliamo del Mepa, vi renderete conto che da quei 19 comuni, soprattutto da 5 o 6 di questi, proviene il 90%, se non il 95%, dei partecipanti alle gare e dei beneficiati dalle pesche miracolose che, azzimatissimi dirigenti alla Franco Biondi, per intenderci, compiono un giorno sì e l’altro pure, godendosi i grandi benefici del covid che, come tutte le calamità, distrugge la vita di tanti e rende ricchi o ancora più ricchi certe categorie in grado di cogliere al volo e di piegare anche ai propri interessi la legislazione di emergenza, che ha permesso di accrescere smisuratamente il già cospicuo potere discrezionale che i dirigenti avevano prima e che oggi gli consente di attingere dal Mepa chi gli pare e piace.
Ad esempio, può essere gratificata tramite il Mepa anche un’impresa di Villa di Briano, una srl semplificata unipersonale, con capitale di 900 euro sottoscritto dal ventisettenne di Casapesenna, Paolo Barone, un ragazzo che ha costituito la società a marzo 2022, è stato accolto nel Mepa il mese successivo e nei primi giorni di luglio ha ricevuto incredibilmente, per decisione monocratica del dirigente Biondi, un appalto dal comune di Caserta di 40 mila euro per la cura degli alberi della città. Una roba delicata, visto che ogni tanto, bell’e buono, ne crolla uno anche in presenza di ventilazione che il grande Sandro Ciotti avrebbe definito “inapprezzabile” e qualcuno rischia di rimanerci secco e accoppato.
Ma che colpa abbiamo noi, potrebbero dire i maestri delle cerimonie, quelli che apparecchiano le gare, se a presentare le offerte, se a stare negli elenchi delle ditte di fiducia sono quasi sempre solo e solamente le imprese dell’agro Aversano? Mica siamo stati noi, mica sono stato io Ferdinando Russo, io Franco Biondi, io dirigente del comune di Aversa Raffaele Serpico, io Amedeo Blasotti (e chi più ne ha, più ne metta) a far crescere la camorra, il clan dei Casalesi, consentendogli di creare un’economia parallela totalmente illegale, ma in grado oggi di uscire addirittura allo scoperto, di ridurre anche l’ausilio dei prestanome e di insediarsi come unico nerbo costitutivo dell’economia reale e apparentemente legale di questa provincia?
No, non si può ascrivere ad un Biondi, al dg dell’Asl Ce, Ferdinando Russo, o al direttore amministrativo Amedeo Blasotti (che dal prossimo 8 agosto diventerà esecutivamente il direttore generale) se la camorra di Casal di Principe ha potuto controllare per anni e anni il territorio, riempiendo all’inverosimile le proprie casse e sviluppando quello che è stato ed è un talento particolarissimo per gli affari che gli imprenditori di quelle parti hanno, come emerge per l’ennesima volta, ma in questo caso in maniera davvero evidente, straripante, dall’ordinanza di cui ci stiamo occupando da tempo e che è una delle pochissime in cui veramente sono emersi i percorsi e i mille rivoli laterali dove sono stati incanalati i quattrini criminali, dove è stato messo a valore quello che Rosaria Capacchione nel suo conosciuto ed importante libro sulla famiglia Zagaria definì l’oro della camorra.
Ragionando neutramente e non considerando che questo sarebbe impossibile culturalmente parlando, non si può chiedere a Biondi, a Russo e a tutti quelli come loro, di farsi carico della responsabilità etica di svolgere un supplemento di sorveglianza su queste gare, non accontentandosi e accogliendo comunque con diffidenza che nelle singole gare queste ditte di Casale e dintorni presentino una documentazione regolare e formalmente legittima.
Altro è il discorso sull’azione che invece la magistratura dovrebbe svolgere (I care, ma proprio alla grande) e poco svolge intorno al macello corruttivo che connota tutti gli uffici pubblici casertani. Reprimere fatti di corruzione non costituirebbe solamente il raggiungimento di un obiettivo peculiare, focalizzato cioè sul fatto specifico perseguito, ma rappresenterebbe una modalità finanche più importante della prima attraverso cui, indirettamente, si andrebbe ad incidere, ad interferire con un sistema dalle fondamenta economiche solidissime e, badate bene, perché è un fatto importante, rafforzato da un vincolo di solidarietà tra chi ne è parte, un riconoscimento identitario proveniente dalla stessa matrice, dalla stessa mentalità, più prosaicamente dalle stesse fatture false, farlocche che un tempo servirono a riciclare un pacco di milioni di euro, proventi delle attività dei Casalesi, dentro ad un modello di azione che abbiamo letto in decine di ordinanze e centinaia di atti di inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli.
Nella vicenda che trattiamo oggi (LEGGI QUI L’ARTICOLO
Insomma, è tutto il meccanismo delle inchieste e delle norme antimafia che andrebbe riformato, attualizzato, messo al passo con i tempi. Perché come funziona oggi (si fa per dire) non va proprio, non va assolutamente e consente ad un Ferdinado Russo, ma soprattutto a questo punto sarebbe meglio dire ad un Amedeo Blasotti che per due lustri ha tenuto in mano l’area amministrativa dell’Asl, di dire “ragazzi, questa è la normativa, noi che possiamo farci?“.
Tutto ciò rafforza, puntella e soprattutto rende sempre meno leggibili le tracce del danaro matido di sangue materiale e di sangue morale che, seppur ripulito da diversi passaggi, sempre quello è nel momento in cui rende un’impresa di Casal si Pricnipe, Casapesenna, San Ciprianno ecc., tanto forte e competitiva da poter effettuare ribassi che nessun altro si può consentire di presentare, aggiungendo a questa possibilità un rapporto di straordinaria empatia con i vari Rup o Direttore lavori che poi, tra magari sei mesi, un anno, daranno il via alle cosiddette riserve, conosciute come varianti in corso d’opera, che spesso vanno a recuperare la cifra non pareggiabile da imprese che non hanno le cifre di cui sopra.
Colpire, dunque, la corruzione, oggi, in provincia di Caserta, significa colpire la camorra. Anzi, la lotta alla corruzione rappresenta di gran lunga il sistema, il metodo più moderno di lotta al clan dei Casalesi e ad una criminalità capace di riorganizzarsi molto di più quanto non ne siano capaci lo Stato e la Repubblica Italiana, i quali dormono, cullandosi ancora sugli allori dei blitz e delle catture dei grandi latitanti, nonostante siano trascorsi quasi 11 anni, tempo calcolato prendendo come riferimento l’ultimo grande arresto della serie, cioè quello di Michele Zagaria, avvenuto il 7 dicembre 2011.
Tornando all’articolo che ha ispirato questo commento, questo mette al centro del suo racconto cronistico la cooperativa Filipendo, cioè una conoscenza ormai notissima di CasertaCE e dei suoi lettori, citata almeno cinquanta volte quando, dall’11 dicembre scorso in poi, abbiamo illustrato le due informative, frutto del duro lavoro compiuto dai magistrati della Dda (questo nostro riconoscimento non è in contraddizione con l’allarme e i rilievi relativi alla sostanziale inerzia dell’azione penale nei confronti dei fenomeni di corruzione imperanti negli uffici della PA casertana) e dagli uomini e le donne della prima sezione della Squadra Mobile della questura di Caserta.
Questa cooperativa e il suo dominus Gennaro Bortone, da San Cipriano d’Aversa e negli ultimi anni trapiantato a Lusciano, dove è residente, erano, secondo gli inquirenti, completamenti integrati nel sistema degli appalti di matrice camorristica nell’ambito dei servizi sociali, che aveva in Lagravanese, cioè in colui che 5 pentiti riferiscono come il referente del clan dei Casalesi in questo settore, la sua guida, e il suo amico di sempre, anzi, il suo socio di sempre sin dal 2003, sin dalla costituzione primordiale del consorzio Agape, Pasquale Capriglione.
Noi non possiamo fare altro, se non vogliamo arrenderci come un desolato Salvatore Quasimodo si arrese alla guerra, appendendo la cetra del poeta ai salici piangenti, che continuare impavidi, esercitando su di noi un autocontrollo, il training autogeno che ci consenta di essere comunque soddisfatti della vita e del modo con cui svolgiamo la nostra professione, nonostante la constatazione della devastante impunità di cui godono tutti i settori più importanti degli uffici della Pubblica amministrazione della Terra di Lavoro e nonostante che se solo poche, anzi, pochissime, delle nostre battaglie trovino riscontro in un’effettiva quanto parzialissima, sicuramente insufficiente ricostituzione di piccoli lembi del tessuto flagellato dello stato di diritto e di una legalità percepita, avvertita in senso materiale e non solamente raccontata nei discorsi conformisti delle anime belle.