AVERSA. Niente soldi per l’infermiere del Moscati e personale del boss: “Innocente, ma aveva rapporti con Antonio Iovine e camorristi”

30 Aprile 2025 - 11:01

SAN CIPRIANO D’AVERSA – Nonostante quattro anni passati in carcere e una sentenza definitiva di assoluzione, Antonio Di Martino, infermiere dell’ospedale Moscati di Aversa, non riceverà alcun risarcimento per l’ingiusta detenzione.

Di Martino fu arrestato nel maggio del 2008 con l’accusa di aver collaborato con il clan dei Casalesi, mettendo la propria attività di infermiere a disposizione del boss latitante Antonio Iovine. Dopo anni di processo, è stato assolto nel 2019, con la formula più ampia: non ha commesso il fatto. Ma la sua richiesta di risarcimento – prevista in caso di ingiusta detenzione – è stata respinta.

Lo ha deciso la Corte di Cassazione, confermando quanto stabilito in precedenza dalla Corte d’Appello di Napoli: secondo i giudici, la sua condotta fu troppo ambigua e imprudente, tanto da giustificare la custodia cautelare all’epoca dei fatti.

I legali di Di Martino avevano sostenuto che il loro assistito aveva solo aiutato una famiglia in difficoltà per motivi umani, e che il suo comportamento era stato travisato. “Non rispondeva ad alcun appello del clan, ma a richieste personali. Non ha mai fatto parte dell’organizzazione”, hanno dichiarato. Ma per la giustizia questa lettura non basta a scagionarlo dalla responsabilità “colposa” di aver contribuito alla propria detenzione.

Secondo i giudici, la detenzione non fu del tutto “ingiusta”, perché fu plausibile, anche per il reato comportamento dello stesso Di Martino. Non si parla di reato, ma di colpa grave: avrebbe frequentato il boss e altri membri del clan con una certa assiduità, prestando loro assistenza infermieristica in maniera illegale, procurandosi medicinali sottratti in ospedale, e intervenendo in questioni delicate come una vicenda estorsiva.

Non solo: il clan, secondo le intercettazioni, gli offrì anche un ruolo attivo in un sistema di estorsione commerciale, proposta che lui rifiutò. Tuttavia, per i giudici questi elementi bastano per escludere il diritto all’indennizzo, in quanto la sua condotta “imprudentissima” avrebbe contribuito a generare l’errore da parte della magistratura che dispose l’arresto.

La Cassazione lo dice chiaramente: essere assolti non significa automaticamente avere diritto al risarcimento. Il processo per l’equa riparazione è separato da quello penale e ha regole tutte sue. Se l’imputato ha creato, anche involontariamente, una situazione che ha potuto far pensare a un reato, il risarcimento può essere legittimamente negato.

Con la decisione definitiva della Cassazione, per Antonio Di Martino sfuma ogni possibilità di ottenere un risarcimento per i quattro anni passati dietro le sbarre. Un caso che dimostra quanto sottile possa essere il confine tra vicinanza umana e complicità apparente, almeno dal punto di vista giudiziario.