La Domenica di don Galeone. La parabola dei vignaioli omicidi è di un realismo tale che potremmo considerarla come una teologia della storia.

8 Ottobre 2023 - 10:30

8 Ottobre 2023 ✶ XXVII Domenica del t.o. (A)

Pregare “pro judaeis et cum judaeis”

La domenica “della vigna del Signore” 

L’immagine della vigna risale a Isaia 5 ed è molto usata per indicare il popolo eletto; qui può indicare Israele o il Regno di Dio (v.43). La parabola, comune ai tre sinottici, ha come centro i vignaioli che uccidono il Figlio, l’inviato del Padre. La parabola è una sintesi di tutta la storia della salvezza, e si può leggere a diversi livelli: a) Gesù non è stato accettato dai prìncipi dei sacerdoti e dalle guide del popolo (v. 32), ma dai poveri e dai peccatori; b) la salvezza può essere rifiutata anche da noi. Nessuno può presumere di essere salvo, vantando titoli o millantando crediti. La parabola, oltre che un giudizio, contiene anche una promessa: la pietra scartata viene scelta come pietra angolare. La morte diventa occasione per una rinascita.

La storia tutta è guidata da Qualcuno che ne regge le fila; il male non porta frutti; il malvagio ha i giorni contati; la vittima scartata dai costruttori diventa la base del futuro! Nel bene e nel male, si intende! Quindi, la vicenda degli antichi ebrei può ripetersi con i nuovi cristiani; tutte le chiese, tutte le religioni, devono ricordare questa drammatica possibilità. Essere cristiani richiede una risposta personale; non ci si salva perché battezzati o circoncisi, perché educati in una scuola cattolica o rabbinica o in una moschea musulmana. Non la razza o il sangue ma lo spirito e la scelta. Davanti a Dio esiste questa sola distinzione: chi costruisce la torre di Babele e chi la civiltà dell’amore, chi ascolta Dio e chi lo rifiuta.

Fa impressione come numerose e fiorenti comunità cristiane dei primi secoli sono semplicemente scomparse: un tempo fiorenti metropoli, ora spente necropoli! Cosa sarà del nostro cristianesimo occidentale tra alcuni secoli? Forse il primato passerà alle chiese dell’Africa e dell’Asia? Sarà sempre il Vaticano il centro della cattolicità? Si parlerà della Chiesa di Roma, di Milano, di Torino … come parliamo delle scomparse chiese di Pergamo, di Filadelfia, di Ippona? Le prospettive non sono incoraggianti: mancano all’appello soprattutto i ragazzi e i giovani: i praticanti assidui tra gli adolescenti (14-17 anni) sono passati dal 37% del 2001 al 12% del 2022 e quelli tra i 18 e 19 anni sono scesi dal 23% nel 2001 all’8% nel 2022 (G. Busca, vescovo di Mantova, presidente della Commissione episcopale Cei per la liturgia). L’attuale cultura della morte e del silenzio di Dio cancellerà ogni tradizione cristiana, o sarà occasione per una scelta personale dei valori cristiani ? La punizione, che tocca ai vignaioli omicidi, consiste nell’essere sostituiti da altri; non si dice da chi: da altri. Questa sostituzione scatta in tutti i tempi. Le chiese che si rifanno a Gesù dovranno sempre tenere presente questa possibilità, perché Dio non può essere sconfitto dalla malizia dell’uomo. D’ora in poi, la “vigna di Dio” non è più un recinto sacro collocato sul monte Garizim o sul colle Vaticano, ma ogni uomo, ogni Chiesa, che accoglie il tesoro del Vangelo e “lo fa fruttificare”.

Questo brano del Vangelo di Matteo costituisce il topos classico per la teoria della Chiesa “nuovo Israele” e “nuovo popolo”, che sostituisce il “vecchio Israele” e il “vecchio popolo”. Questa fanta- teoria teologica non ha nessun fondamento né scritturistico né teologico; la sua origine si perde nell’alto medioevo cristiano. È utile ricordare che Gesù non era un cristiano. Egli era, a tutti gli effetti, un ebreo. Non andava a messa la domenica, ma in sinagoga il sabato. Non parlava greco e latino, ma ebraico ed aramaico. Nessuno lo chiamava Pastore e Monsignore ma Rabbì. Non leggeva il Nuovo Testamento ma la Bibbia. Non recitava il rosario ma i salmi, come nel momento della tentazione e della morte. Non celebrava Natale e Pasqua, ma Shavuòt e Pèsach. Non una Comunione ma un Sèder. E rabbi Jeshùa non era un mediocre ma un osservante: portava gli ziziòth (le frange rituali al mantello). Qualunque cosa possano aver detto Lutero o Paolo stesso, rabbì Jeshùa non è venuto a dispensare dalla Legge, dalla Torah, ma a realizzarla.

Per affermare la grandezza del Cristianesimo non occorre squalificare, ridicolizzare, demonizzare l’Ebraismo. Gesù non è un aerolito, un masso erratico caduto in Palestina. Dobbiamo affermare la sua grandezza ed originalità non al di fuori o contro l’Ebraismo, ma con e dentro l’Ebraismo, che non è il negativo su cui far risaltare il positivo di Gesù e del Cristianesimo. Un ritorno alle radici ebraiche faciliterebbe la “de-ellenizzazione” del pensiero cristiano. In La subversion du Christianisme, il biblista J. Ellul sostiene che il Cristianesimo, passando dal mondo ebraico a quello greco-romano, ha subito una deviazione. Da questa violenta e non riuscita fusione di ellenismo ed ebraismo, sono nate le tante dispute teologiche e le drammatiche eresie. Pensiero razionale greco e pensiero allegorico orientale sono molto divergenti: dare un senso ontologico ad un linguaggio non ontologico, significa fare “eis-egesi” e non “ex-egesi”. È giunto il tempo di scrivere, se non il Tractatus pro judaeis, almeno il Tractatus de iudaeis. Abbiamo pregato per 2000 anni “pro perfidis judaeis”; è giunto il tempo di iniziare a pregare “pro judaeis et cum judaeis”. BUONA VITA!