LA NOTA. Salvini tra il Gattopardo e la passione. Si concentri non sul 37%, ma sul 6% che è tornato a votare dopo una vita. E lì gli Enzo Nespoli…
6 Novembre 2019 - 18:00
CASERTA (G.G.) – Filosofi, sociologi, psicologi ne discutono da secoli: come sviluppare, in quanto elemento di civiltà, la cultura della sconfitta?
Problema troppo complicato e troppo legato a elementi soggettivi perché si possa arrivare ad una sua codificazione.
Ci hanno provato anche i cantanti: gli attempati, ma anche gli appassionati, non possono non conoscere quello che fu uno degli inni della musica anni ’60.
“Bisogna sapere perdere”, cantavano i The Rokes, portandosi anche un passo avanti con la spiegazione: “Non sempre si può vincere”.
Una cosa molto diversa dalla famosa frase, odiata da tanti quale marchio per sfigati, coniata dal barone De Coubertin, per il quale “L’importante è partecipare”.
Insomma, ci si è sempre occupati, nelle ricostruzioni storiografiche, ma anche nelle opere letterarie, inutile dilungarsi su quelle di Giovanni Verga, della vita dei perdenti, dei vinti.
E anche nel tempo presente, la cosiddetta pubblicistica, insieme a varie arti figurative, continua a coltivare la narrazione della sconfitta e degli sconfitti.
Pasolini, ma anche i più recenti film di Özpetek, che provano a trasformare, con una visione tipica della sinistra di un certo tempo, la sconfitta in bellezza.
Ma allora non c’è proprio nessuno oggi che cerca di porre la questione opposta? Chi si occupa della cultura della vittoria? Quelli che vincono devono godersi il momento e festeggiare oppure, accettando di vincere e non di stravincere, rendono non effimera la loro affermazione in modo tale da non perdere poi le battaglie del futuro?
Se ne parla poco. Ma in politica, per esempio, è una questione seria, che ha garantito momenti di grande euforia, tanto beati quanto provvisori, a figure che poi non hanno lasciato tracce durevoli di sé nella storia.
Oggi, dunque, volendoci riallacciare alla premessa, chi è il vincente dei vincenti, e ora anche guardando i risultati delle ultime elezioni, anche il vincitore dei vincitori nella politica italiana?
Senza ombra di dubbio Matteo Salvini è riuscito a modificare radicalmente, ma con un percorso tutto sommato soffice, coperto e protetto dalla sua personalità, l’identità separatista ma soprattutto antisud della Lega bossiana delle ampolle riempite alle sorgenti del Po, in una Lega della nazione che, utilizzando gli egoismi, le grandi difficoltà di affermazione di un’idea europea (che non sia fondata, come purtroppo invece è, sulla prevalenza degli interessi nazionali franco-tedeschi), ha ridato forza, rappresentazione ancor prima che rappresentanza, ad una forma di orgoglio di appartenenza identitaria rispetto alla nazione Italia.
Ma questo è un Paese che dall’inizio della Seconda Repubblica in poi brucia i politici con una facilità disarmante, unica nel suo genere.
Per cui, anche Salvini, il Salvini del 34% delle Europee, quello stratosferico del quasi 37% delle Regionali in Umbria, se non ragiona oggi su quello che bisogna fare per non rischiare di imboccare il viale del tramonto, così come è successo a tanti altri, è destinato a entrare pure lui nel pantheon diroccato delle meteore.
Ecco perché noi abbiamo scritto sin dal primo momento, sin dalle elezioni politiche del 2018, quando le percentuali della Lega hanno cominciato ad alzarsi finanche nel Meridione d’Italia e finanche in Campania, che costruire un partito per fronteggiare solo le necessità elettorali avrebbe comportato un grave rischio, perché la delega territoriale ad antichi e nuovi mestieranti della politica, a trasformisti di talento e vocazione che di partiti ne ha cambiati già una mezza dozzina, avrebbe inoculato, offrendo alla Lega l’abbraccio mortale dei peggiori difetti storici del Meridione stesso (tra cui il trasformismo del Principe di Salina è il primo tra tutti), il virus della sconfitta proprio attraverso l’iniezione solo apparentemente salutare di una classe dirigente di veri e propri professionisti della politica politicante.
È questo il motivo principale per cui, nell’ultimo anno e mezzo, abbiamo criticato duramente la scelta di affidare la Lega in Campania a Enzo Nespoli, il quale, buon per lui, in carcere non ci andrà, grazie probabilmente alla prescrizione, dopo che la Corte di Cassazione ha annullato, senza peraltro assolverlo, con rinvio al giudice di secondo grado, i sei anni di prigione comminati sia dal Tribunale di primo grado che dalla Corte di Appello.
In questi giorni, gli organi federali della Lega hanno nominato Nicola Molteni alla carica di commissario regionale. Ciò è accaduto anche in conseguenza, come goccia che ha fatto traboccare il vaso, degli eventi verificatisi ad Avellino, dove il coordinatore provinciale della Lega, designato a suo tempo dal coordinatore regionale Gianluca Cantalamessa, figlioccio politico di Enzo Nespoli al pari di Pina Castiello, è stato arrestato ai domiciliari.
Matteo Salvini ritiene che proprio nel momento di massimo fulgore occorra dare al partito una identità trasparente, anche correndo il rischio di dar forma a una classe dirigente ingenua ed inesperta, ma comunque sorretta da uno spirito ideale che oggi, piaccia o no, esiste e si identifica nel leader, riuscendo (prodigiosamente, per quelli che sono gli usi e i costumi dell’Italia meridionale) a dare un’identità non esclusivamente legata al particulare, ovvero ai propri interessi personali, alla partecipazione politica.
È un treno che non passerà più. Oggi bisogna scegliere, dunque, tra il Gattopardo e la passione. Oggi, solo oggi, con gli avversari tramortiti dal voto umbro, Salvini ha la possibilità di collocarsi come leader vero.
Perché se non occorre un leader per “fare i voti” con il pallottoliere e la calcolatrice, con le promesse clientelari, con le code questuanti davanti alle segreterie dei politici, occorre al contrario un grande leader per dare vita a una comunità di intenti che costruisca un progetto per il Paese, senza avere il problema – o almeno senza farlo diventare una priorità – di alimentare la stiva elettorale di voti purché siano perché a questi, per il momento, ci pensa Salvini, così come ci ha pensato Mario Segni, all’alba della cosiddetta Seconda Repubblica, così come ci ha pensato Silvio Berlusconi, poi Romano Prodi, poi ancora Berlusconi, e poi Matteo Renzi, esempio nitido dell’effimero italiano innalzato dal popolo sovrano sugli altari e due anni dopo cacciato a calci come un mentecatto.
Ha ragione, dunque, il neo europarlamentare Valentino Grant, che nell’intervista rilasciataci e che pubblichiamo, parimenti a questa nota di commento, su Casertace (CLICCA QUI), quando focalizza la sua attenzione non tanto su una superficiale ubriacatura di felicità legata al 37% umbro, ma su quel 6% in più che ha rappresentato la piacevole novità di un’affluenza al voto in controtendenza, che cresce dopo che per più di dieci anni ha sempre rivolto le sue frecce di indicazione verso il basso.
Dunque, Salvini non vince le elezioni in quanto conquista il 37% ma le vince su un piano nobile nel momento in cui riconquista alla politica, alla partecipazione, al ruolo di necessari protagonisti di una struttura democratica, centinaia di migliaia di cittadini che da tempo avevano abdicato, rifiutando la missione democratica, che si sviluppa solo attraverso la loro trasformazione in elettori attivi ed eventualmente passivi.
In una regione rossa vanno a votare Lega persone che in passato hanno votato a sinistra e che poi a un certo punto della sinistra italiana non hanno voluto più sapere, cestinando i propri certificati elettorali.
Questa è la riflessione, contenuta nell’intervista a Grant, che abbiamo voluto sottolineare. Salvini, dunque, non tradisca questo 6% di umbri che lo hanno votato in quanto, a ragione o a torto, credono in lui. È un popolo prezioso, che non cerca il posto facile, la raccomandazione, altrimenti a votare ci sarebbero andati sempre. È un popolo costretto alla passività, che si è volontariamente tolto di mezzo ma che per propria caratteristica possiede una grande attitudine, una grande potenzialità all’attività, alla disponibilità a dare una mano attiva alle ragioni di tutti, alle ragioni della comunità, alle ragioni di una Regione.
Quel 6% rappresenta un nobile e positivo capitale politico e, in conclusione, deve aprire la strada a tanti altri 6% o anche ad altri 10% partendo magari proprio dal Sud.
E certo questo non potrà accadere se a rappresentare la Lega ci saranno uno o più Enzo Nespoli.