CONFRONTO DI TESI. Il caseificio Garofalo si ritiene diffamato. CasertaCe: avvocato, ha frainteso, noi l’abbiamo invitato ad uscire allo scoperto per difendere l’onore di un marchio che le parole di un pentito e le decisioni di un giudice hanno offuscato

6 Novembre 2020 - 12:18

Riceviamo e pubblichiamo integralmente la lettera, piuttosto minacciosa a dir la verità, dell’avvocato Mauro Iodice, a cui rispondiamo con serenità e con il sorriso che ci si apre quando riflettiamo sulla perfezione, sull’ineluttabilità, sull’onestà intellettuale della cultura liberale, nostra unica bussola

LA REPLICA DI CASERTACE

(di Gianluigi Guarino) Gentile (?) avvocato Iodice,

Nutrendo lei la certezza che quell’articolo integri, come dite voi altri giuristi, la fattispecie tipica della diffamazione a mezzo stampa, mi chiedo per quale motivo abbia scritto questa lettera, invece di procedere, come è normale e legittimo fare, quando la lettura di un testo giornalistico alimenta tali sicurezze. Nonostante ciò, noi non possiamo non riconoscere di trovarci di fronte ad un ottimo avvocato penalista, tra i più rinomati in provincia di Caserta. Per cui, va da sè che la sua valutazione sulla veridicità delle dichiarazioni di Luciano Licenza debba essere valutata con grande rispetto, con grande attenzione e con un’apertura concettuale nella quale pesa la sua indubbia autorevolezza, gentile (?) avvocato, che è termine assoluto e figuriamoci un pò cosa valga invece in termini relativi rispetto a quella del signor Licenza.

Per cui, se lei dice che quest’ultimo non è credibile, è un bugiardo, in quanto è stato condannato in altri processi, chi accoglie questa tesi è portato anche ad assumerla come convincente elemento di persuasione. Oltre a me, però, queste cose bisognerebbe dirle ai magistrati della Dda di Napoli e ai giudici del tribunale partenopeo che, senza declinare chiose, ritengono, al contrario, che quelle dichiarazioni del Licenza rappresentino un contributo importante alla costruzione di un’accusa.

E considerandole tali, gli stessi magistrati inquirenti e gli stessi magistrati requirenti non è che stiano lì a fare i sofistici e, dunque, a stabilire una codificazione selettiva, sottolineando che le parole di Licenza, da un lato, corroborano l’architettura accusatoria, dall’altro lato, si configurano come solenni fregnacce quando invece incrociano le identità di terze persone non indagate, ma che comunque hanno espresso azioni dinamiche a corredo dei comportamenti criminali.

A corredo non vuol dire che abbiano compiuto, a loro volta, dei reati. Le ordinanze di camorra sono piene zeppe, come lei sicuramente ci può insegnare, di retroterra, di scenari, di cornici di quieto vivere, di disponibilità, insomma di quell’humus dentro al quale la camorra si è rafforzata e grazie al quale i latitanti, ricercati in tutto il mondo, se ne sono stati beatamente a vivere nei loro paesi senza che un imponente spiegamento di forze e di detectives azzimatissimi, siano riusciti, per tanto tempo, a fiutarne quantomeno la presenza.

Per cui, se la sua autorevolezza, avvocato Iodice, va riconosciuta come premessa della valutazione da lei espressa su Licenza, sarebbe illogico non sviluppare lo stesso interesse, la stessa curiosità per il  sapere intorno alle posizioni dei pm della Dda e dei giudici del tribunale di Napoli che si manifestano nel momento in cui i primi propongono nella loro richiesta di applicazione di misure cautelari, i secondi accolgono, decidendo di inserire quel particolare contenuto, che potremmo dunque, definire, “di cornice”, in un’ordinanza che probabilmente rappresenta nemmeno un decimo dell’estensione espressa dalla richiesta della Dda che la precede e la ispira. Andiamo appresso.

Stesso discorso e stesso rispetto merita, per i motivi appena sviscerati, la sua affermazione sul fatto che Licenza, anzi il bugiardo Licenza, non abbia effettivamente indicato proprio nella casa in cui abitava Garofalo, quella in cui si è svolto l’incontro tra Francesco Zagaria, cognato del boss e suo referente per ogni trama camorristica, e lo stesso Licenza. Oltre al rispetto, dobbiamo riconoscere e al riguardo chiediamo venia, di non aver correttamente interpretato il passaggio e di aver alimentato l’idea che quell’incontro fosse avvenuto nella casa non solo di proprietà, ma anche di abitazione del Garofalo. Effettivamente, come dice lei, dalle parole di Licenza si può stabilire che quella non era la casa in cui Garofalo abitava, ma era solo un immobile di sua proprietà. Ora, il perchè Licenza abbia voluto specificare a chi appartenesse quella casa, lo dovremmo domandare a lui, dato che immediatamente dopo asserisce che lì, abitava proprio Francesco Zagaria che, da vice capo della camorra di Casapesenna, da marito della sorella di Michele Zagaria, non poteva certo risiedere in una catapecchia.

Nel confermare il riconoscimento del nostro errore interpretativo, ci permettiamo, bonariamente, di tirare un buffetto all’avvocato Iodice, il quale, giustamente, ha bollato il nostro errore, dimenticando però, di completare la contro-lettura autentica di quei fatti, segnalando chi fosse l’inquilino di quella casa, cioè il vice capo del clan dei casalesi Francesco Zagaria detto Francuccio la benzina, marito della sorella di Michele Zagaria, on già dunque, Paolo di Tarso o Santa Maria Goretti.

Per carità, la cosa può contare o non contare, la cosa può essere connessa o non connessa a quel riferimento strano, catastale che Licenza fa sulla proprietà di quella casa, però, dato che giustamente lei, avvocato, propone un’analisi del testo che ci coglie in errore, la citazione andava esposta nella sua versione completa.

Ma nonostante l’errore che riconosciamo e di cui ci assumiamo la responsabilità, noi non siamo, invece, d’accordo strutturalmente con lei, visto che non riteniamo di aver diffamato il caseificio Garofalo. Partiamo dalla riproduzione letterale, operata, non da noi, ma da un giudice della Repubblica italiana che evidentemente ha ritenuto di non dover omissare (e avrebbe potuto farlo benissimo come i pm e i gip fanno in tantissime altre occasioni simili) quella parte delle dichiarazioni di Licenza, in cui compariva il nome del suo cliente e del suo caseificio, non ci siamo tirati indietro e, mettendoci come sempre la faccia, abbiamo voluto esprimere una valutazione che, però, è molto diversa, profondamente diversa, dalla modalità con cui lei l’ha interpretata.

Sillogismo: siccome tantissime citazioni di aziende, da parte di collaboratori di giustizia, passano in cavalleria, cioè non incrociano un riscontro da parte di chi è chiamato in causa e che avrebbe il diritto, ma, aggiungiamo noi, anche il dovere di querelare per calunnia il pentito che li accusa o quantomeno di esprimere una contro-lettura di quelle dichiarazioni, come avrebbe dovuto fare, a mio avviso, lo ribadisco, e, al contrario, non ha ancora fatto il signor Garofalo, abbiamo voluto fissare un attimo, in un nostro fotogramma, le dichiarazioni sul caseificio Garofalo.

Come ha potuto constatare, non abbiamo certo marciato sulle parentele dirette o indirette. E di questo, cioè della rinuncia ad adottare uno strumento narrativo che la maggior parte dei giornali, anche nazionali, al contrario, utilizza, non vogliamo certo auto celebrarci, visto che riteniamo, essendo dei liberali fino all’osso, che l’avere relazioni parentali più o meno intense, con l’una o con l’altra persona, non implica assolutamente che si possa configurare una commistione o anche semplicemente una corrispondenza emotiva, se non fattuale, con quel particolare congiunto.

Abbiamo scritto un’altra cosa, avvocato Iodice, una cosa che appartiene alla cultura liberale. Abbiamo invocato una reazione da parte del caseificio Garofalo. E l’abbiamo invocata soprattutto a tutela di questo marchio commerciale. Dunque, a tutela e non a discredito dello stesso, abbiamo scritto che stiamo parlando di un’azienda importante che, come tale, non avrebbe potuto far finta di nulla davanti alla decisione di un giudice di pubblicare quello stralcio di ordinanza, il quale, se non contiene come giustamente lei ha fatto rilevare, l’indicazione che quell’incontro si sia svolto nella casa di abitazione di Garofalo, esplica un concetto, a nostro avviso, succedaneo e cioè che nella casa di Garofalo, riteniamo, con il suo consenso, non sappiamo se o meno per effetto di un contratto di locazione, abitasse il vice capo della camorra che dentro a quelle stanze compiva sistematicamente dei gravi reati, nel momento in cui incontrava con gli imprenditori per ripartire gli appalti che il clan dei casalesi controllava, si può immaginare come.

Quindi, lei rovescia il senso della questione. Noi auspichiamo, da parte di chi viene chiamato in causa negli interrogatori dei collaboratori di giustizia, una reazione ferma e perentoria, quella di chi non ha nulla da nascondere e non ha scheletri negli armadi e che dunque non ha bisogno della dimostrazione esteriore di una querela. Se lei, leggendo quel nostro articolo (cari lettori, CLIKKATE QUI PER RENDERVI CONTO ANCHE VOI), ravvisa la diffamazione, per carità, noi dissentiamo, ci prepariamo ad una possente difesa delle nostre tesi in qualsiasi sede, ma non possiamo non ravvisare che questa sua costruzione, per lei logica, secondo noi, illogica, questa interpretazione del nostro articolo, per lei logica, a nostro avviso illogica, la sua particolarissima esegesi selettiva sulle parole di Luciano Licenza, integrano (ci piace proprio questo termine giuridico che abbiamo scoperto nelle infinite letture delle ordinanze di camorra) la categoria, purtroppo esistente, della pressione minacciosa esercitata attraverso lo strumento della querela, che stabilmente viene utilizzata soprattutto in certi territori in cui la commistione tra criminalità organizzata, politica, imprenditori danarosissimi collegati ai cartelli criminali, colletti bianchi e autorevoli ranghi degli esponenti delle libere professioni, rappresenta la magna pars dell’organizzazione socio economica. Un metodo a cui siamo talmente abituati da non percepirla nemmeno più la pressione della minaccia.

D’altronde, da liberali sereni quali siamo, prima di questo nostro scritto, abbiamo pubblicato integralmente, senza omettere una sola sillaba. la sua lettera in cui lei ci etichetta come diffamatori. L’abbiamo fatto come facciamo sempre in circostanze analoghe. L’abbiamo fatto perché noi non crediamo nello strumento della querela, ma in quello del confronto franco, aperto, che non può far paura a chi non ha nulla da farsi perdonare.

Lei, avvocato, invece di prendersela con il collaboratore di giustizia che ha prodotto quei racconti, con il giudice che ha deciso di pubblicarli, non già in una raccolta di fumetti, ma, ripetiamo, in un’ordinanza di misura cautelare in carcere di alcuni soggetti presuntamente collegati al gruppo Zagaria, se la prende con noi. Ma in ciò io non ravviso alcuna stranezza, alcuna anomalia.

Come si suol dire, more solito, visto che il problema, che appare evidente anche in questa comunicazione formale da lei inviataci, non è quello della rivendicazione di una reputazione che non ha paura di difendere se stessa apertis verbis, ma è costituito dal solo fatto che una persona o anche un marchio rinomato come quello del caseificio Garofalo, venga solo citato. E non conta dunque niente la modalità qualitativa attraverso cui si sviluppa un ragionamento all’interno di un articolo. E non contando, un errore, tutt’altro che madornale, ma veniale come quello da noi compiuto, diventa agli occhi del sistema, di un certo sistema, una possibilità di esercitare una censura di fatto.

Insomma, non conta nulla l’aver lavorato testimoniando principi liberali e dunque il non aver collegato ingiustamente a qualche parentela, come avremmo pur potuto fare noi, come fanno tanti altri giornali, anche nazionali, togliendo, in questo modo, a lei e all’imprenditore ogni possibilità di arrampicarsi su qualcosa. Invece, siccome ancora siamo tanto stupidi da sognare un mondo migliore, abbiamo pensato che il parlare con franchezza al caseificio Garofalo, chiedendo un atto forte, pubblico, duro, manifesto di critica impietosa nei confronti dei cartelli criminali, magari accompagnando il tutto con una tranquilla spiegazione riguardante la veridicità del racconto di Luciano Licenza riguardo alla proprietà di quella casa e magari spiegando nel caso in cui effettivamente quel luogo appartenesse al patrimonio di Garofalo, perchè il suo possesso nella disponibilità di Francuccio la benzina, al secolo Francesco Zagaria.

con franchezza, con chiarezza e senza retro pensieri, in modo da tracciare, senza sé e senza ma, una linea di demarcazione che deve esistere e purtroppo in questa provincia non esiste, gentile avvocato, tra quello che camorra è e quello che camorra non è. Beninteso, quando parliamo di linea di demarcazione, ci riferiamo ad una categoria morale e non materiale, visto che la camorra la si aiuta, non solo partecipandovi internamente o esternamente, ma anche, semplicemente, defilandosi, come lo “scrutatore non votante” che assomiglia come una goccia d’acqua alla sedicente anti camorra casertana, della canzone di Samuele Bersani (CLIKKA QUI PER ASCOLTARLA), in modo da non incrociare rogne.

Dunque, avvocato, lei ha scambiato un invito costruttivo, finalizzato a rafforzare la reputazione del marchio Garofalo, per un atto diffamatorio.

Questo è il mio esame dell’imputato. Gliel’ho anticipato qualora ci fosse bisogno in futuro di misurarsi in un tribunale su questi concetti.