IL FOCUS. MAXI PROCESSO a 105 imputati per le violenze nel carcere di S.MARIA C.V. La questione di costituzionalità dell’avvocato Stellato, confutata da Franco Piccirillo, legale del garante dei detenuti

13 Gennaio 2023 - 20:12

Per il momento, il presidente della corte di Assise in cui è incardinato il processo, il giudice Roberto Donatiello, non si è ancora pronunciato. L’obiettivo del difensore è quello di ottenere l’annullamento del rinvio a giudizio e l’azzeramento della procedura che poi dovrebbe ripartire dall’avviso di conclusione indagini. Un’esposizione dettagliata delle ragioni

SANTA MARIA CAPUA VETERE (g.g.) – Vive ancora le sue prime fasi il maxi processo nei confronti dei 105, tra agenti di Polizia Penitenziaria, in servizio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, oppure appartenenti a nuclei di intervento straordinario, provenienti da altre case circondariali, dirigenti apicali del Dap della Campania e funzionari in servizio nel carcere sammaritano.

Di solito, le cosiddette questioni preliminari che abbracciano le eccezioni presentate dagli avvocati difensori, allo scopo di indirizzare in un certo modo il dibattimento, oppure di bloccarlo ab origine, vengono ignorate dai giornali, o anche vengono affrontate in maniera ipersintetica, al limite della incomprensibilità.

Nel caso del processo sui maltrattamenti perpetrati ai danni dei detenuti nella folle giornata del 6 aprile 2020, riteniamo, invece, doveroso, soprattutto in considerazione della delicatezza di questa vicenda che coinvolge pesantemente importanti apparati dello Stato e con numeri senza precedenti, affrontare il dibattimento in maniera completa sin dall’inizio, dando spazio e comunicando cognizione anche alle questioni preliminari più importanti.

Uno degli avvocati difensori, parliamo di Giuseppe Stellato, sin dalle primissime udienze di dicembre ha presentato un’eccezione che riteniamo molto interessante, soprattutto perché, di fronte al riscontro della corte d’Assise, il legale ha rilanciato, sollevando una questione di costituzionalità.

Questi sinteticamente i fatti: l’ufficio del Pm Alessandro Milita, al tempo Procuratore della Repubblica aggiunto e titolare dell’indagine, ha mancato di depositare diversi elementi materiali, a partire dalle riprese video, raccolte da decine di telecamere impiantate nei vari reparti del carcere di Santa Maria Capua Vetere il 5 aprile 2020, il giorno precedente a quello del fattaccio, ma a quanto pare anche le riprese della giornata cruciale del 6 aprile, quando un’insulsa violenza fu consumata.

Nell’eccezione, presentata dall’avvocato Stellato, veniva lamentata inoltre la difficoltà, in certi momenti insormontabile, di venire a capo dei formati di molte intercettazioni captate da WhatsApp.

Tutto materiale che avrebbe dovuto fornire contenuto completo e compiuto dell’avviso di conclusione delle indagini, ai sensi dell’articolo 415 bis del codice di procedura penale.

Di cui, la richiesta formulata dal legale della difesa alla corte di Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, dov’è incardinato il processo, di dichiarare la nullità del decreto che ha disposto a suo tempo il rinvio a giudizio, in quanto l’assenza delle videoriprese del 5 aprile e di alcune di quelle del 6 aprile, unite alla difficoltà ad accedere a talune intercettazioni, avrebbero reso imperfetta la procedura prevista dal citato 415 bis del codice di procedura penale.

Visto e considerato che, sempre secondo Stellato, il diritto alla difesa sarebbe stato chiaramente compresso dalla mancata presenza nel fascicolo di elementi che l’accusa avrebbe poi utilizzato nel processo.

Nella seduta successiva, il presidente della corte di Assise, Roberto Donatiello, ha respinto tecnicamente e giuridicamente l’eccezione di nullità presentata dall’avvocato Stellato, ma, allo stesso tempo, fermo restando la prosecuzione del processo, ha sancito che tutti gli atti che l’accusa non ha deposito nel fascicolo connesso all’avviso di conclusione indagini preliminare, dunque le video riprese e le intercettazioni WhatsApp complicatamente accessibili, non possano essere utilizzati dall’accusa durante il dibattimento.

Se da un lato è stata rigettata la richiesta di annullare il decreto di rinvio a giudizio e riportare il tutto allo stadio iniziale di un avviso di conclusione delle indagini, contenente anche le video riprese e in grado di garantire una facile fruizione di quelle intercettazioni complicatamente accessibili, con il clamoroso ritorno di 105 imputati allo status di indagati, cioè ad una condizione in cui venivano cassati, oltre al decreto di rinvio a giudizio sancito da un Gup del tribunale, anche la richiesta di rinvio a giudizio, formulata dalla procura; dall’altro lato, la corte di Assise ha altresì dichiarato non utilizzabile tutto il materiale non regolarmente depositato nel fascicolo di conclusione indagini.

In pratica, quelle video riprese del 5 e in parte del 6 aprile e quelle intercettazioni WhatsApp complicatamente accessibili avrebbero potuto guadagnare tranquillamente il cestino, perché non sarebbero entrate mai nel dibattimento processuale, come strumenti a disposizione del Pubblico ministero a sostegno della propria accusa.

Stellato non si è dato per vinto e ha posto la questione di legittimità costituzionale per violazione dei diritti della difesa della Carta riguardante i diritti della difesa, nella parte in cui il 416 comma 2 del codice di procedura penale non prevede espressamente la nullità del decreto che dispone il giudizio nel caso in cui il Pm non depositi tutti gli atti e tutti gli elementi di prova raccolti nella sua indagine.

In sostanza, l’iniziativa di sollevare un quesito di costituzionalità si è fondata sull’argomento, tutto sommato non campato in aria, che l’assenza di quelle video riprese e l’inaccessibilità di quelle intercettazioni avrebbero dato alla strategia difensiva, attuata o non attuata nelle more tra la notifica dell’avviso agli indagati e la richiesta di rinvio a giudizio, e ancora, in sede di udienza preliminare, in questo ultimo caso, ad esempio, attraverso una richiesta di rito abbreviato, una direzione di marcia, un format, una configurazione che, in presenza di quelle video riprese e in piena conoscenza di quelle intercettazioni, avrebbe potuto essere diversa, a partire – ripetiamo l’esempio perché è l’ipotesi più incidente nell’economia di una fase procedimentale – dalla richiesta di accesso al rito abbreviato.

In pratica, la decisione della corte di Assise di spacchettare la questione, rendendo inutilizzabile il materiale non depositato o depositato male da tutto il resto, ha trovato in disaccordo Giuseppe Stellato, il quale, invece, ritiene sostanzialmente che lo spacchettamento, reso possibile dall’attuale formulazione dell’articolo 416 comma due, non ci debba essere, in quanto (ci permettiamo d’interpretare liberamente il pensiero dell’avvocato Stellato) la somma e l’integrazione di tutti gli elementi di un’indagine determinano, in maniera omogenea, il segno di una strategia difensiva, piuttosto che di un’altra.

LA TESI DELL’AVVOCATO FRANCO PICCIRILLO

A questo punto e subito dopo l’illustrazione della questione di legittimità costituzionale posta dalla difesa, è intervenuto l’avvocato di parte civile Franco Piccirillo, in rappresentanza il Garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello.

Una trattazione, quella di Piccirillo, altrettanto interessante rispetto alla precedente di Stellato, ma che, al di là dell’aspetto logico e di equità che, ripetiamo, Stellato pone e a nostro avviso non è campata in aria, sembra portare delle argomentazioni difficilmente oppugnabili in punto di diritto.

Riteniamo di poter sintetizzare in questi termini il ragionamento dell’avvocato di parte civile: per come è stata posta la questione di legittimità costituzionale, la medesima si incardina su un presupposto erroneo e cioè che l’articolo 416 comma due del codice di procedura penale incorpori anche la conseguenza del mancato rispetto, da parte del Pm, degli obblighi relativi al deposito degli atti, al deposito degli elementi Di prova nel fascicolo connesso all’avviso di conclusione delle indagini preliminari.

L’unica conseguenza, nella lettura di chi propone la questione di costituzionalità dell’articolo 416 comma due, sarebbe quella dell’inutilizzabilità che, ad avviso dell’avvocato Stellato, rappresenterebbe una lesione del diritto della difesa, così come questo è previsto e declinato dall’articolo 24 della Costituzione.

Da questa supposta chiarezza d’indirizzo dell’articolo 416 comma 2, dunque, si muoverebbe l’iniziativa riguardante la contestazione sulla costituzionalità della norma.

Se così fosse difficilmente si sarebbero, così come, al contrario, è accaduto, sviluppati diversi orientamenti giurisprudenziali dei giudici della legittimità, visto e considerato – così ha sostenuto l’avvocato Piccirillo – che esistono dei pronunciamenti della Cassazione e dunque un orientamento, quand’anche minoritario che, rispetto al mancato deposito di tutti gli atti d’indagine da parte del Pm, ha deciso per la nullità e non per l’inutilizzabilità.

Esistendo questo orientamento ed esistendo l’orientamento maggioritario opposto, esiste anche quella condizione che permette al giudice ordinario, in questo caso il presidente della corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, di orientarsi in direzione del primo o del secondo pronunciamento della Cassazione.

La corte Costituzionale, al riguardo, si è pronunciata con chiarezza e l’ha fatto attraverso la sentenza 456 del 1989, la quale, ad avviso dell’avvocato Piccirillo, non va, in quanto datata, snobbata. Al contrario, si tratta del’ l’unica sentenza relativa a questa materia.

Dopo di essa, la Consulta ha prodotto solamente ordinanze che sistematicamente hanno respinto le questioni di legittimità costituzionali sollevate in processi in cui un giudice aveva effettuato, per l’appunto, quell’interpretazione adeguatrice, consentitagli dal fatto che la giurisprudenza di legittimità si fosse pronunciata in maniera non univoca rispetto all’applicazione di una norma.

La corte Costituzionale delimita con chiarezza il proprio perimetro di competenza e afferma che questa può riguardare solamente i casi in cui nel processo ordinario è pacifica l’avvenuta lettura della norma non conforme alla Costituzione, perché per diritto vivente, per pronunciamento della corte di Cassazione a Sezioni Riunite, è, per l’appunto, pacifico che l’interpretazione è quella è basta e non ce ne possono essere altre.

A quel punto, il giudice ordinario dovrà uniformarsi a quell’unico orientamento, diremmo meglio, a quell’unico orientamento possibile, visto che l’intervento delle Sezioni Riunite della corte di Cassazione non può arrivare al punto di cancellare o stravolgere interpretativamente il testo di una norma.

Siccome, poi, il giudice ordinario è “costretto” a seguire il pronunciamento delle Sezioni Riunite, che a loro volta non possono andare al di là di un segno interpretativo della norma, non competendo a loro una funzione differente, diventa ovvio che l’unico giudice in grado di intervenire è quello della corte Costituzionale, alla quale si chiederà un sì o un no rispetto alla costituzionalità di quella legge, di quella norma.

Quel sì e quel no che non possono essere, invece, chiesti per dipanare una disputa o una non univocità giurisprudenziale. Il mestiere della corte Costituzionale, infatti, non è quello di erogare pareri sulla prevalenza di un orientamento sull’altro e non è quello di entrare nel merito della decisione del giudice ordinario relativa al suo uniformarsi all’uno o all’altro orientamento.

Ripetiamo e concludiamo: può darsi anche che la multiformità della giurisprudenza riguardo ad una norma possa lo stesso prevedere, secondo noi, l’ipotesi che ognuna di queste interpretazioni, al di là del loro segno, possa prestarsi alla presentazione di un’istanza di legittimità costituzionale, ma questo oggi non è previsto negli orientamenti della Consulta anche perché, se da ogni processo partisse, a fronte di un diniego opposto da un giudice ad un’eccezione di nullità, la presentazione di una questione di legittimità costituzionale, occorrerebbero 10 mila giudici in azione e in servizio nel palazzo della corte Costituzionale.

È ovvio che nel momento in cui è la Cassazione o il Consiglio di Stato a porre un quesito alla Consulta, il discorso è differente perché questo avviene in un numero limitato di casi.

Gli orientamenti della Consulta, ripetiamo, sono definiti con chiarezza dalla sentenza del 1989 – la numero 456 – alla quale, non a caso (e come già detto), non ha fatto seguito nessun’altra sentenza, ma solamente ordinanze di rigetto.