La “bacchetta”, specialità di CASA SCHIAVONE. Nicola truffò il padre di sua moglie con un mutuo per una casa. Il ruolo di Renato Corvino e Carmine Caccavale

3 Aprile 2019 - 12:01

CASAL DI PRINCIPE(g.g.) Dire che gli Schiavone, intesi come famiglia criminale tra le più temibili del mondo per un lungo lasso temporale che va dalla fine degli anni ’80 fino al 2010, epoca in cui Nicola Schiavone, figlio del fondatore del clan dei casalesi Francesco Schiavone, fu arrestato, sia stata solamente una delle più terribili centrali, uno dei più solidi tessuti connettivi in grado di mettere insieme gli interessi delle cosche con quelli dei tanti affaristi delle cosiddette zone grige, è riduttivo.

Gli Schiavone sono anche altre cose. E non è neppure sufficiente affermare che la loro ascesa criminale sia stata dovuta anche ad una attitudine, ad una caratteristica che ha informato le vite di chi le mafie, le camorre, le ndranghete le ha comandate nella veste di mammasantissima, in Italia, negli Stati Uniti e in tutte le altre parti del mondo: l’intelligenza, considerata come insieme armonico, come disposizione fortunata di sinapsi.

No, gli Schiavone hanno posseduto e forse posseggono ancora un talento specifico, che tutto sommato è una sovrastruttura dell’intelligenza: dicesi “arte della bacchetta“. Perchè la costruzione di una bacchetta non necessita solamente di una capacità di cogliere, in maniera veloce, centrando quell’attimo fugace e irripetibile, la possibilità, lo sbocco offerto da una situazione che piegata, attraverso l’utilizzo di una qualità intellettiva, costruisce un vantaggio che, in teoria, non era accessibile e insperato.

Se ci pensate bene, l’omicidio di Antonio Bardellino, in pratica l’atto fondamentale di un cambio epocale degli equilibri camorristici in tutta la Campania, l’atto finale di una fronda latente, un autentico regicidio realizzato per incoronare un nuovo re, regista del complotto, dicevamo, come può essere definito altrimenti questo delitto, se non come una colossale bacchetta? Il clan dei casalesi avrebbe potuto anche armare una task force di mercenari in stile “La sporca dozzina“, dotandola di armi sofisticatissime. Ma non sarebbe mai riuscito ad ammazzare Antonio Bardellino con la facilità con cui lo ha fatto allorquando una bacchetta congegnata, sviluppata e realizzata da Francesco Schiavone, il quale carica a molla, contro Bardellino, Mario Iovine, utilizzando il racconto addomesticato riguardante l’omicidio di un congiunto di quest’ultimo.

E allora un atto di astuzia, come la storia ci insegna, senza scomodare neppure utilizzatissimi episodi appartenenti all’epica, può molto di più di quanto avrebbe potuto un bombardamento aereo della villa brasiliana, in cui il capo della Nuova Famiglia si era rifugiato.

E allora, buon sangue non mente. In scala, 1 ad un milione, e, fortunatamente, senza il contorno di spargimenti di sangue, la bacchetta che Nicola Schiavone consuma ai danni del suocero, è un’altra attestazione di questo modo, che è uno dei tanti modi, per mezzo dei quali gli Schiavone hanno utilizzato, a fin di male, la loro indubbia intelligenza.

Nell’interrogatorio del 9 gennaio davanti ai giudici della sezione misure di prevenzione del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, presidente Massimo Urbano, il pentito racconta di quando, ingegnosamente, tirò una solenne fregatura al padre di sua moglie, al quale non era certo legato da rapporti di simpatia, peraltro specularmente ricambiato. In principio, ovviamente per non dare nell’occhio, Nicola Schiavone andò ad abitare, con la sua fresca sposa, in un appartamento di Villa di Briano, con regolare contratto di locazione e conseguente corresponsione di pigione.

Siccome il giovane non era poi, al di la delle necessità di navigare il più possibile sotto traccia, uno che disdegnava i piaceri della vita, desiderò, quasi immediatamente, andare a vivere in una casa di proprietà che potesse gestire come meglio riteneva. Scartata, per privacy, l’opzione di via Bologna, dove, nella storica dimora di famiglia, governata da Giuseppina Nappa, la matriarca, Nicola Schiavone era proprietario di alcuni spazi, le attenzioni si rivolsero ad un’abitazione che suo padre Francesco Schiavone Sandokan, avrebbe, secondo la tesi del figlio, “acquistato (sic!)” negli anni ’90 a Casal di Principe.

Qui, però, c’era una situazione incasinata perchè questa proprietà si intersecava con quella dell’altro affiliato Armando Schiavone. Ciò implicava la necessità, per rendere tutta l’operazione armonica, di acquisire un’altra proprietà attigua, intestata a Renato Corvino e Carmine Caccavale. Due imprenditori di Casal di Principe che si erano trasferiti ad Aversa e che, sempre secondo il racconto di Nicola Schiavone, non avevano più alcun interesse a possedere immobili nella loro terra natia. Nicola Schiavone si mise d’accordo con il suo confinante Armando Schiavone per definire la compravendita, insieme a loro due, e poi rivolgendosi direttamente a Renato Corvino e Caccavale.

Attenzione, però, quando parliamo di proprietà, ci riferiamo alla proprietà sostanziale, materiale e non a quella formale, legale. Perchè Nicola Schiavone, rispondendo ad una domanda del pubblico ministero della dda Alessandro D’Alessio, chiarisce che sia la parte formalmente nelle mani di Corvino e Caccavale, sia quella acquistata da suo padre Francesco Schiavone, erano formalmente intestate agli appena citati imprenditori di Casal di Principe, emigrati poi ad Aversa.

Questi vendevano i loro immobili e incassavano anche i soldi, rimanendone però intestatari fittizi. 

E qui, parte la bacchetta. Nicola Schiavone avverte suo suocero di attivare quel mutuo bancario su cui si era accordato tempo prima e che doveva finanziare l’acquisto della casa in cui il neo boss e la moglie sarebbero andati ad abitare.

Il tutto, se, in teoria, serviva alla operazione immobiliare di cui il suocero di Nicola Schiavone era convinto, in realtà, nella costruzione “bacchettista” avrebbe dovuto finanziare un’altra operazione immobiliare, relativa all’acquisto di un’altra casa, ubicata in un diverso luogo di Casal di Principe.

Ovviamente, i giudici e il pm chiedono al pentito come poi riuscì a realizzare l’operazione. Neanche loro riescono a seguire in maniera precisa questa sorta di cascata di talento bacchettaro. E allora Nicola Schiavone spiega: “Mio suocero ha pagato le rate del mutuo fino a due anni fa, anzi fino all’anno scorso. Mia moglie l’ho avvertita della realizzazione di questa operazione solo successivamente all’accensione del mutuo. Se le avessi anticipato qualcosa, lei ne avrebbe parlato con il padre e l’operazione sarebbe saltata. Non so se ci ha parlato confidandogli tutto, all’indomani del mio arresto.“.

Giudici e pm hanno bisogno di comprendere meglio, di entrare nella testa di un grande artista, di un grande facitore di bacchette. Dunque, pongono altre domande sulla vicenda. E allora, Nicola Schiavone ripete, anzi, scandisce il concetto: “Ribadisco, le rate del mutuo non le pagavo io, ma mio suocero. I soldi sono finiti a Renato Corvino, amico di mio padre, che ha un figlio di nome Cristoforo, mio coetaneo, ma non per la casa di via Colombo che avevo acquistato io, ma per l’altra casa. Spiego meglio: mio suocero era convinto di pagare per una casa che avrebbe costituito la dote di sua figlia, ma in realtà i Corvino avevano riscosso quei soldi e siccome io già avevo pagato loro 160 mila euro per l’acquisto di questa seconda abitazione, la somma, frutto del mutuo, servì a finanziare in parte le rifiniture e l’acquisto dei mobili, che comportarono una spesa tra i 300 mila e i 400 mila euro.

Beninteso, questo lo aggiungiamo noi, allo scopo di dare un minimo di chiarezza a questo garbuglio infernale, Nicola Schiavone, con la moglie, è andato ad abitare in via Colombo, cioè nell’immobile di cui il suocero del boss riteneva erroneamente di aver acquistato con il mutuo.