LA NOTA. L’arresto di Walter Schiavone è l’ennesimo campanello d’allarme del declino degenerativo del modo con cui lo Stato utilizza oggi i pentiti di CAMORRA. La lezione di Falcone e…

11 Giugno 2021 - 12:18

Come spesso capita, noi consideriamo i dettagli molto più importanti delle letture conformistiche e rituali dei fatti della cronaca. Per cui, speriamo che questo episodio un momento di ripensamento e di rideterminazione strategica. Dunque, se tra un mese ce lo ritroviamo anche lui collaboratore di giustizia…

 

CASAL DI PRINCIPE (Gianluigi Guarino) Il dato di fatto che Walter Schiavone sia stato ammanettato mentre era protetto dallo Stato, in una località segreta, in quanto lui, portando con sè moglie e figlio, aveva accettato il programma di protezione, esprimendo in questa maniera, ma solo in apparenza, alla luce di quello che poi è successo, un’adesione, un consenso rispetto alla scelta operata da suo fratello maggiore

Nicola Schiavone, che, pentendosi, ha determinato l’effetto di cui Walter junior stava usufruendo, al pari di sua madre e delle due sorelle.

Insomma, bisogna stare attenti perchè al cospetto di questi episodi si rischia, o meglio, lo stato rischia di delegittimare sè stesso, per aver perniciosamente delegittimato, coinvolgendo, magari nello stesso calderone valutativo anche quei pentiti, e ce ne sono, che raccontano verità reali, lo strumento fondamentale della collaborazione con la giustizia, cioè la scelta genuina e consapevole di resipiscenza, operata da chi è stato protagonista di attività criminali in contesti di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta eccetera. Da tempo noi scriviamo che, essendo stati testimoni di tante stagioni della pre-lotta alla camorra, della lotta e della post-lotta, abbiamo più di una sensazione che l’utilizzo di questo strumento sia andato al di là del normale, al di là del logico, al di là di quel punto di equilibrio che deve sempre essere trovato tra l’uso del propalatore, di chi cioè racconta fatti e le attività investigative di raccolta fattuale, materiale, che deve essere realizzata anche ma non solo, attraverso l’uso delle intercettazioni, ma soprattutto evitando di ritenere chiusa la partita della costruzione di un atto di accusa in base a quel discorso relativo alla sovrapponibilità delle dichiarazioni di un pentito rispetto a quelle di un altro pentito. Quel meccanismo non regge più ed è anche giusto che in uno stato di diritto non regga. Perchè se è comprensibile in una fase emergenziale una forzatura che porta alla determinazione di una condanna a carico di una persona, di un criminale mafioso, solo in base a racconti di testimoni o di coimputati, ciò non può certo durare per decenni e decenni.

Non era questo che Giovanni Falcone, soprattutto lui, avrebbe voluto. Non era questo che ha inteso lasciare in eredità a chi ha intrapreso il percorso professionale della lotta alle mafie. Non era questo che Falcone preconizzava quando affrontava, spesso e volentieri, da palermitano doc, i discorsi più impegnativi e più dirimenti che consideravano l’attività di repressione, cioè gli arresti, le condanne, solo un aspetto, addirittura non fondamentale, di fronte alla necessità di propagare i segni di una cultura nuova. Chi conosce bene avendo scavalcato i confini del bignamino del ventunesimo secolo che oggi si chiama Wikipedia, qualcosa di approfondito sulla vita del giudice ucciso a Capaci, sa bene quanto fosse presente in lui la preoccupazione, il pensiero, il timore che i collaboratori di giustizia, i pentiti potessero diventare un’arma a doppio taglio.

Ed è proprio in funzione a questa preoccupazione che, con la sua intelligenza, con il suo rigore, con il suo senso dello stato e, diciamocela tutta, anche con il garantismo che lo contraddistingueva, si era speso e aveva speso ogni sua energia fisica per dare spessore, concretezza ed autentico valore all’utilizzo dei collaboratori di giustizia, dato che nella sua testa non ha mai abitato il pensiero che tutti i racconti effettuati da Masino Buscetta potessero bastare a loro stessi, potessero rappresentare l’unico strumento attraverso cui, approfittando di una situazione nuova, creatasi nel paese, dopo i tanti omicidi eccellenti di mafia a partire da quello del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel settembre 1982, ottenere condanne definitive dei mafiosi.

Il pentimento di Buscetta fu il capolavoro di Giovanni Falcone e il capolavoro della lotta nazionale e internazionale a Cosa Nostra, attivata, per la prima volta realmente, in quegli anni. Fu capolavoro non tanto perchè a pentirsi fu un mafioso di altissimo rango che aveva avuto ruoli fondamentali anche nelle relazioni internazionali delle cosche, ma perchè Falcone riuscì a mettere insieme, a combinare il racconto con le verifiche, la narrazione di un pentito con la scoperta dei primi grandi forzieri italiani ed extra italiani in cui erano ben nascoste i patrimoni stra-miliardari della mafia.

E fu grazie a questo approccio che le tantissime cose raccontate dall’ex boss della mafia perdente palermitana costituirono la struttura portante, ma non esclusiva, dell’accusa che il pool antimafia sviluppò dentro all’aula bunker del carcere dell’Ucciardone, durante il famoso maxi processo del 1986. Ma se l’esito di questo primo grande dibattimento poteva essere atteso con fiducia ed ottimismo da Falcone, Borsellino, Ayala e tutti gli altri magistrati del pool capitanato da Antonino Caponnetto, diverso e assolutamente non scontato, era il discorso relativo alle prospettive dei successivi gradi di giudizio nei quali, invece, quell’impianto accusatorio solidissimo resse, superando brillantemente anche l’incognita della Corte di Cassazione, dove, pur essendosi determinata in quegli anni la congiuntura favorevole di Tangentopoli, con il conseguente indebolimento dei partiti della cosiddetta prima repubblica, Falcone, la sua filosofia giudiziaria, le ore ed ore di applicazione certosina sui documenti che lo portarono insieme a Paolo Borsellino a trascorrere una vacanza, pensate un pò, in appartamenti ricavati nel carcere dell’Asinara insieme alle proprie famiglie, colsero il successo, tutt’altro che scontato di chiudere il cerchio con quel verdetto definito della Cassazione, la quale, al netto del cosiddetto giudice ammazzasentenze Corrado Carnevale, rifilò decine e decine di ergastoli tombali, aprendo in pratica la stagione stragista dei corleonesi, i quali, furiosi per quell’esito, soprattutto per quella sentenza della corte di Cassazione che ritenevano, probabilmente non a torto, permeabile dal potere politico, si scagliarono per vendetta proprio contro quel potere, con lo storico ed emblematicissimo omicidio del marzo 1992 del parlamentare Salvo Lima, cioè di colui che aveva in qualche modo tessuto sempre la tela costituente il collante tra la terra di Sicilia e i palazzi romani.

Non è esagerato, a mio avviso, narrare di nuovo la sintesi di quegli anni fondamentali della repubblica italiana, collegandoli ad un avvenimento che, almeno in apparenza, sembra infinitesimamente meno significativo, meno importante. Ma dato che i fatti piccoli, soprattutto quando questi coinvolgono criminali appartenenti alle famiglie che hanno avuto autentici eserciti della malavita sotto il loro comando, possono giustamente fornire spunti di riflessione e anche di preoccupazione, l’arresto di Walter Schiavone in località protetta, cioè all’interno di una casa dello stato e che lo stato non aveva messo a disposizione come luogo di reclusione e di espiazione ma appunto come luogo di protezione di un’intera famiglia, suscita dunque legittimi interrogativi su una sorta di bulimia degenerativa per effetto della quale la magistratura anticamorra, probabilmente impigrita dopo gli anni delle guerre frontali, consegna se stessa ad un destino di insuccessi come cominciano a dimostrare determinati esiti, tra i quali, vanno, ad esempio, sicuramente menzionati, l’autentica demolizione che il tribunale del Riesame ha inflitto ad un’ordinanza su cui la Dda aveva molto puntato e che aveva portato all’arresto dei fratelli Filippo, Nicola e Mario Francesco Capaldo di Casapesenna, dunque, non di scartine, bensì degli eredi a suo tempo designati dal loro zio Michele Zagaria, e proseguendo poi con l’assoluzione totale generale (una volta i giustizialisti avrebbero detto, “un colpo di spugna”) sentenziata dalla Corte di Appello di Napoli, per tutti gli imputati di un processo simbolo, una sorta di emblema, di format di riferimento, di autentica declinazione del rapporto tra la camorra, l’imprenditoria ad essa consegnatasi e la politica che ne garantiva la realizzazione degli arricchimenti e degli interessi, così come questo era stato definito nella costruzione giudiziaria dei pm della dda napoletana e che aveva coinvolto personaggi molto conosciuti, a partire dall’ex consigliere regionale nonchè ex sindaco di Villa Literno Enrico Fabozzi e proseguendo con gli imprenditori Giovanni Malinconico e Mastrominico brothers, fino ad arrivare a Nicola Ferraro e compagnia.

Se l’arresto di Walter Schiavone ha rappresentato un atto di qualità investigativa deve diventare un punto di partenza per una lotta ferma, ma serena, non emotiva alla criminalità organizzata e ai suoi rapporti con la politica e l’imprenditoria che ci sono sempre stati e forse ci sono ancora, così come abbiamo raccontato e raccontiamo ogni giorno dalle colonne di questo giornale che, se qualche magistrato lo leggesse un pò di più, male non gli farebbe. Non sarebbe invece bello se di qui a 20 giorni, un mese o due mesi, raccogliessimo e pubblicassimo la notizia della decisione di Walter Schiavone di diventare a sua volta un collaboratore di giustizia, visto che, sempre a nostro avviso, andrebbe ad ingrossare le fila dei pentiti di terza o quarta generazione che oggi, come dimostrano, ripetiamo, decisioni e sentenze dei collegi della legittimità, ma non solo, non servono più se il loro contributo viene considerato una sorta di panacea, di strumento totale e totalizzante, addirittura di sentenza pronunciata al posto dei giudici al di fuori da ogni  principio morale, tipico della struttura di uno stato di diritto