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L’ORO DELLA CAMORRA. Anche la “Rete Ferroviaria” di Trenitalia dava lavori milionari in subappalto ai fratelli Giuseppe e Raffaele Diana, imprenditori di Michele Zagaria

1 Febbraio 2021 - 13:07

In questo articolo e nello stralcio di ordinanza che pubblichiamo in calce, affrontiamo, come nostra considerazione, un punto che nelle prime 89 pagine del provvedimento del tribunale di Firenze, non è stato toccato e che invece noi consideriamo fondamentale: stavolta non era “cartiere integrale” ma a monte del riciclaggio c’erano dei super lavori dati da imprese nazionali a soggetti imparentati e legati al clan dei casalesi

 

CASAPESENNA/FRIGNANO(g.g.) La vita è piena di rappresentazioni impresse su quel particolare tipo di medaglia contenente una speculare contro rappresentazione nel rovescio della stessa. E così, un cognome abbastanza comune come Ferri ispira una similitudine un pò sfacciata e ancor più malandrina, tra il bianco e il nero, tra la medaglia e il suo rovescio, tra lo storico professore Giuseppe Ferri, uno dei padri del diritto commerciale e autore di un manuale su cui abbiamo studiato milioni di noi, e un altro manualista di ingegno, ma di ingegno criminale, cioè Vincenzo Ferri da Frignano, considerato un punto di riferimento all’interno della criminalità camorristico-finanziaria, di un meccanismo, divenuto vero e proprio sistema.

Quando camorristi o para camorristi hanno pensato alle società cartiere, messe in piedi solo per erogare o incassare fatture per operazioni inesistenti, Vincenzo Ferri è stato sempre, infatti, citato come un caposcuola. Loro, i camorristi, lo conoscevano bene perchè come hanno poi scoperto i magistrati della Dda, il Ferri è stata una delle casse più attive del clan, quella in grado di mettere a disposizione provviste cospicue di denaro contante, frutto proprio di quelle operazioni di finanza creativa e di economia farlocca, uno degli strumenti maggiormente utilizzati per il riciclaggio del danaro sporco.

Vincenzo Ferri fu arrestato insieme a decine di altre persone il 26 marzo 2018, ad epilogo di una complessa attività investigativa della Guardia di Finanza, coordinata dalla procura della repubblica presso il tribunale di Aversa-Napoli nord. Successivamente la sua posizione si è complicata quando sono venute fuori le relazioni materiali, finanziarie appena menzionate, con il clan dei casalesi, che hanno trasformato Vincenzo Ferri anche in un affare di pertinenza della Dda.

Volete che un meccanismo potente di costruzione di provviste di danaro contante con ogni probabilità destinato a rimpinguare le casse dello stesso clan, quelle del cartello di Michele Zagaria in particolare, qual è senza ombra di dubbio il meccanismo messo in piedi dai fratelli Giuseppe e Raffaele Diana e da (come lo possiamo chiamare questo qua, un commercialista? un faccendiere? o Come?) Antonio Esposito, non incrociasse le tracce di questo caposcuola della fattura falsa? Falsa di fatto, in quanto collegata ad una prestazione non effettuata. Ci soccorre al riguardo l’ordinanza firmata dal gip del tribunale di Firenze, Federico Zampaoli, su richiesta della locale procura distrettuale antimafia.

L’intercettazione in questione coinvolge Luigi Diana, nipote ed omonimo di quel Giggino o diavolo appartenente alla prima schiera dei luogotenenti di Michele Zagaria ma anche cugino e, aggiungiamo noi, ispiratore, di Raffaele e Giuseppe Diana. Come abbiamo visto nel precedente articolo (LEGGI QUI

), il ruolo di Luigi Diana in questa vicenda, seppur da una posizione leggermente più defilata, è importante, in qualche modo, fondante e fondativa del sistema messo in piedi in Toscana.

Luigi Diana è “ascoltato” in auto mentre conversa con Stefano Cicala, nipote diretto di Antonio Esposito, in quanto figlio di Marianna Esposito, sorella di Antonio e sua prestanome di fatto come rappresentante legale della Loreta Costruzioni, punto di riferimento di tutta quanta la filiera lunghissima di società messe insieme da questa organizzazione, di cui lo stesso Cicala è amministratore.

Questi racconta a Diana di quando chiese a Vincenzo Ferri un prestito per un suo amico di Perugia. In un batter d’occhio, dai cassetti del faccendiere di camorra frignanese Vincenzo Ferri uscì la somma in contanti di 100mila euro. Ferri pretese un assegno a garanzia, che scadeva una settimana dopo.

Nel momento intascò l’effetto, disse a Stefano Cicala che lui conosceva Antonio Esposito e qualora quel titolo fosse risultato scoperto all’incasso, sarebbe andato da lui. E così avvenne. L’amico di Perugia non coprì l’assegno ed Esposito dovette scucire sull’unghia 112mila euro, cioè 100mila per il capitale prestato e 12mila per, chiamiamole così, competenze di Vincenzo Ferri. A questo punto Cicala, con lo zio piuttosto incazzato, si precipitò a Perugia e risolse la situazione, ottenendo dal suo interlocutore la cifra versata da Esposito a Ferri.

Detto questo, il giudice di Firenze osserva, con un ragionamento molto interessante, che se Ferri è stato un caposcuola, i Diana e gli Esposito sono stati dei continuatori, degli elaboratori e dei modernizzatori del suo sistema, cioè del sistema Ferri che si basava quasi esclusivamente, se non esclusivamente, su operazioni finanziarie. In poche parole, sin dall’inizio della giostra delle fatture, ci si riferiva ad operazioni inesistenti, rese funzionali a false forniture edili per esempio o ad altri acquisti che in qualche modo potevano poi essere giustificati.

Nel caso di Firenze, invece, il danaro è prodotto da un’operazione, da una prestazione reale, esistente, materialmente riscontrabile. Scrive il giudice, “da opere edili regolarmente tracciate“. Successivamente, entrano in campo le altre società che cominciano ad applicare, ma, ripetiamo, solo in un secondo momento, il sistema Ferri attraverso una forsennata emissione di fatture per operazioni non reali. Queste sono intestate a prestanomi e sfociano tutte in centinaia di prelievi al bancomat, attraverso cui i conti correnti vengono svuotati e ciò che è stato all’inizio frutto di ricavi in apparenza leciti, legati a lavori effettuati, si trasforma in provviste, in grandi somme in contanti che presumibilmente vengono utilizzati in tutto o in parte per alimentare le casse del clan dei casalesi.

Al riguardo, esiste una sorta di prova del 9, attuata dalla Dda fiorentina: l’analisi dei bilanci delle aziende capofila del sistema Diana-Esposito. La Loreta presenta entrate per 6 milioni 391.765 euro, ed uscite per 6 milioni 443.891 euro. Stesso discorso (le cifre precise le potete leggere nel già citato stralcio di ordinanza che pubblichiamo in calce) vale anche per la Rosa Costruzioni srl e la Fiorentina Costruzioni srl.

Casa significa questo: significa che le società in cima ad una filiera che arrivava fino all’erogazione bancomat, non disperdevano un solo euro, creando un’anomalia evidente perchè è difficile ritenere che un’impresa che incassa due, tre o addirittura sei milioni di euro non punti quantomeno ad un minimo di utile. Ecco perchè gli inquirenti ritengono comprensibilmente che le imprese capofila svolgevano una funzione, erano strumento rispetto ad un fine, costituito dalla monetizzazione in contanti che aveva un senso solo se quei soldi dovevano avere un utilizzo inconfessabile.

Bene, bravo, bis. Siamo arrivati a pagina 89 e abbiamo compreso che la magistratura inquirente fiorentina e anche il giudice che ha firmato l’ordinanza, hanno ben compreso il meccanismo. Ci auguriamo che però non ci facciano aspettare di più e dunque nelle prossime pagine possiamo incrociare una spiegazione, un chiarimento sui criteri con i quali queste imprese di carattere nazionale o regionale, ad esempio, la Toscana Energia, abbiano dato in subappalto alle società principali, capofila del gruppo Diana-Esposito, lavori per milioni e milioni di euro. Quali requisiti avevano le società di Giuseppe e Raffaele Diana e di Esposito, agli occhi dei titolari di queste autorevolissime aziende? E siccome il giudice nello stralcio di ordinanza che pubblichiamo in calce, cita anche RFI, cioè Rete Ferroviaria Italiana, che dipende da Trenitalia, ci piacerebbe sapere come un’azienda pubblica, controllata dallo stato, individui le imprese subappaltatrici per lavori strategici, di fondamentale importanza, come sono sicuramente quelli relativi all’alta velocità, in cui le imprese operanti in Toscana, ma saldamente ancorate alla realtà di Casapesenna, erano impegnate.

 

QUI SOTTO LO STRALCIO DELL’ORDINANZA