MARCIANISE COME CORLEONE. Scrivendo quello che ha scritto al Tar, Velardi ha cinicamente sputtanato la città per avere la scorta

29 Settembre 2020 - 20:38

Ancora oggi se l’è presa con un giovane affermando che questi era stato sottoposto al lavaggio del cervello solo pechè ha osato citare quello che lui ha messo nero su bianco nel ricordo al Tar. Roba degna dell’Unione Sovietica ai tempi di Andreij Sacharov e Alexander Solženicyn

QUI SOTTO LA REPLICA DI ANTONELLO VELARDI

 

Bisogna mettersi davvero d’impegno per scrivere un cumulo di fesserie in poche righe. Ma ho capito che ormai si scrive senza sapere di chi si parla: è il segno dei tempi. Mi dispiace quando sono i giovani a subire il lavaggio di cervello e a mostrare una conoscenza completamente errata dei fatti. Ma va bene: ce ne faremo una ragione. Mi fermo qui, evito fin d’ora repliche perché è come scrivere sulla sabbia. Buona fortuna, resto convinto che bisogna conoscere il male per apprezzare il bene.

 

MARCIANISE (gianluigi guarino) – Abbiamo incrociato uno dei tantissimi post (un vero e proprio profluvio), pubblicati dall’ex sindaco di Marcianise, Antonello Velardi, nei giorni della sua ricandidatura e nei tempi tesi e complicati della sfida di ballottaggio che lo rivede opposto a Dario Abbate. Avremmo potuto selezionarne alcuni per discuterci intorno, non perché Velardi ma soprattutto il suo pensiero meritino di essere al centro di una speculazione filosofico-concettuale, ma trattandosi di uno dei candidati a sindaco della terza città della provincia, il supplizio ci tocca.

Abbiamo scelto un botta e risposta che ha coinvolto quello che dev’essere, evidentemente, un giovane, poiché così Velardi lo definisce, a cui quest’ultimo ha risposto da par suo, eruttando rimbrotti con la solita specialità della casa: l’assenza totale di una confutazione relativa ai contenuti.

Quelli di Andreij Sacharov e Alexander Solženicyn sono i casi più noti, assurti al rango che tocca ai fatti della grande Storia del novecento, della persecuzione che il regime sovietico ha sempre operato, fino all’avvento di Gorbaciov, nei confronti dei dissidenti. Sacharov e Solženicyn sono diventate delle icone in quanto nomi altisonanti della complessa scienza della fisica e di una letteratura preziosa che rinverdiva la tradizione, pardon la storia, dei grandi narratori russi. Entrambi premi Nobel, rimane negli annali la cerimonia con cui nel 1975, ad Oslo, il premio più prestigioso tra i riconoscimenti attribuiti agli uomini e alle donne più importanti del pianeta, fu ritirato dalla moglie di Sacharov, dopo una difficile procedura di autorizzazione, ottenuta solo per effetto delle grandi pressioni internazionali che  consentirono dunque a Elena Bonnėr Sacharova, moglie di Sacharov, di far toccare al marito recluso il premio Nobel per la pace.

Per quanto riguarda Solženicyn, a lui si devono diverse opere letterarie ma una, Arcipelago Gulag, ha rappresentato un punto di riferimento per milioni e milioni di persone, ma soprattutto per noi liberali nel momento in cui combattevamo i regimi assoluti che in quegli anni abbondavano nelle carte geografiche e che avevano, in quello sovietico, l’espressione largamente più importante.

Sacharov e Solženicyn condivisero, con gli altri dissidenti, il destino della pazzia. Furono anche internati in strutture per la “cura” di malati psichiatrici. Ma qual era la patologia che li affliggeva secondo i satrapi del Politburo? Il fatto di considerare, non tanto il comunismo ma il regime comunista dell’Unione Sovietica, una delle peggiori espressioni di disprezzo e di negazione dei diritti umani, mai verificatasi nella storia dell’uomo e che aveva un omologo solido solo nel Nazismo hitleriano. Il satrapo dei satrapi, cioè il segretario del Pcus Leonìd Il’ìč Brèžnev diceva pressapoco così: “Se Sacharov e Solženicyn affermano una cosa del genere, non possono che essere pazzi. E quindi alterneranno periodi in manicomio ad altri di reclusione o di confino“.

Il giovane di Marcianise ha sostenuto, tentando l’impresa impossibile di aprire un dibattito libero e democratico su un pubblico post di Velardi, la seguente tesi: “Fa strano leggere (come si può capire non c’è alcuna volontà offensiva, ma l’uso di aggettivo misurato, moderato, n.d.d.) queste parole dalla stessa persona che ha definito Marcianise “la capitale italiana del crimine organizzato“. 

In effetti, nel ricorso al Tar presentato con l’obiettivo di vedersi confermato quello che, a nostro avviso, è l’odioso privilegio di stampo feudale di una scorta, il Velardi ha scritto: “Marcianise non è solo uno dei maggiori centri produttivi del Mezzogiorno, ma è anche una delle capitali italiane del crimine organizzato.“. Insomma, non proprio la capitale, ma una delle capitali. Il ché non fa alcuna differenza, al punto che avremmo potuto evitare di formulare questa precisazione, ma noi vogliamo essere precisi. Perché se Velardi ritiene di non misurarsi mai in un contraddittorio serio, basato sui contenuti, la nostra storia, la nostra cultura, il nostro senso di una missione civile che riteniamo di compiere ogni giorno, ci impedisce di seguire le sue orme che conducono dritte ad una visione assolutista, antidemocratica, di tipo sovietico e/o di tipo fascista.

Allora, il Velardi risponde al giovane marcianisano nel seguente modo: “Bisogna mettersi davvero d’impegno per scrivere un cumulo di fesserie in poche righe“. Ora, interveniamo noi, uno si aspetterebbe da una persona normale la descrizione, ci accontenteremo di tipo sommario, delle fesserie scritte dal giovane marcianisano. Così prosegue, invece, il nostro: “Ho capito che ormai si scrive senza sapere di chi si parla“. Non abbiamo capito noi, invece, se l’uso del chi sia un refuso o un termine in scienza e coscienza. Se dovesse ricorrere questa seconda ipotesi, ci troveremmo di fronte ad un tipico caso di Lei non sa chi sono io.

E il segno dei tempi“. Aggiunge Velardi, spiegando in pratica che sono i tempi di oggi e l’ignoranza di oggi che non consentono al giovane di capire con quale gigante, con quale aquila della storia e del pensiero di ogni tempo stia interloquendo. Una interpretazione che l’uso di quel “chi” rende pressochè pacifica. Ora, però, il Velardi ci dirà quali sono state le fesserie scritte dal giovane. E invece, come capita nella famosa scena finale della banda musicale di Caianiello, questo qui va avanti con la sua canzone, con il suo pezzo, con la sua rappresentazione senza curarsi di nulla, senza consentire realmente ad altre persone di argomentare, di dissentire, semplicemente di esercitare il diritto alla discussione.

Mi dispiace quando sono i giovani a subire il lavaggio del cervello e una conoscenza completamente errata dei fatti“. Ooohhh, finalmente ora Velardi spiega i fatti e mettiamo il ragazzo dietro la lavagna. E invece, Totò, che va avanti con la sua marcetta dinanzi allo zio d’America Joe Pellecchia tornato a Caianiello.

Ma va bene, ce ne faremo una ragione. Mi fermo qui, evito fin d’ora replica perché è come scrivere sulla sabbia“. Ma almeno, aggiungiamo ancora noi, Franco Quarto e Franco Primo avevano scritto “Ti amo” sulla sabbia, il Velardi, invece, ci sputa solo livore perché anche questa volta non risponde nel merito.

Resto convinto – così conclude con tono millenarista – che bisogna conoscere il male per apprezzare il bene“. Non avendo replicato nei contenuti, per la milionesima volta, cosa rimane poi realmente di questo scritto di Antonello Velardi? Se uno mi contesta ed esprime un pensiero difforme dal mio, vuol dire che come Sacharov e Solženicyn, ha subito un lavaggio del cervello da cui si può ritornare solo facendone un altro, magari in un gulag, uguale e contrario. E allora il giovane di Marcianise che non ha avuto nemmeno la soddisfazione di sapere quali siano le fesserie che ha pronunciato, lo mettiamo in un bel gulag che magari facciamo costruire a qualche ditta stimata dal Velardi e dai Rossano, e così non rompe più i coglioni.

Secondo concetto: caro ragazzo, solo quando conoscerai il male, potrai apprezzare il bene, che poi sono io e soltanto io. Il bene sono io, senza se e senza ma e soprattutto senza spiegazioni.

La questione è assimilabile a quello del mistero della fede della liturgia cattolica. Tu devi credere a prescindere e ti devi porre domande durante l’attività di preghiera, comunque centrale nella tua vita, perchè non si può spiegare quello che la mente dell’uomo, infinitamente meno sviluppata di quella di Dio, può comprendere, dovendosi limitare dunque ad accettare “il mistero della fede”.

Guardate, marcianisani, se voi, questo qui, domenica prossima, lo voterete ancora, consegnerete voi stessi ad una imbarazzante negazione di una minima logica del buonsenso, di una minima cifra di democrazia reale, dato che la volta scorsa c’erano i partiti e le liste degli alleati a rendergli a volte la vita complicata, stavolta ci sarebbero solo degli yes man che lui si è scelto a sua immagine e somiglianza, pronti a obbedire senza discutere.

Lui ha scritto quella frase nel ricorso al Tar. E a conclusione di questo articolo, vi proponiamo con ampia possibilità di replica da parte di chi fosse in disaccordo con questa interpretazione, quello che a nostro avviso significa nella sua conseguenza, nella parte finale e tombale di un sinistro sillogismo: siccome le grandi capitali della malavita organizzata non sono tante, vuol dire che Velardi, definendo Marcianise come una capitale della criminalità organizzata, ripetiamo una capitale e non un semplice capoluogo di provincia, l’ha messa sullo stesso piano di Ottaviano, di San Luca in Aspromonte, ma soprattutto sullo stesso piano di Corleone.

A queste argomentazioni dovrebbe rispondere. Ma dato che non ha un concetto di basica, cardinale democrazia in testa, ma è avvolto da una insostenibile incoscienza di sé, non lo farà mai. Votatelo pure, ma a questo punto i marcianisani diventeranno un fenomeno tafazziano, autolesionista disegnando i tratti plumbei di un vero e proprio cupio dissolvi della loro città.