RIVOLTA NEL CARCERE DI S.MARIA C.V. La testimonianza: “Quella sera volevamo solo ristabilire la legalità. I detenuti gettavano olio bollente”
12 Giugno 2020 - 15:36
SANTA MARIA CAPUA VETERE (red.cro.) – “Non riesco a credere di essere stato indagato per tortura, è una cosa assurda, che mi fa molto male, anche perché non mi appartiene“. A parlare, oggi all’Agenzia Nazionale Stampa Associata (ANSA), dopo le tensioni di ieri nel carcere di Santa Maria Capua Vetere innescate per l’inchiesta su presunti pestaggi, è Angelo Bruno, uno dei 57 agenti indagati dalla Procura, che in quell’istituto lavora dal lontano 1996.
Lui, ieri, dopo avere avuto la notizia di essere sotto inchiesta è salito per protesta sui tetti dell’istituto di pena. Per convincerlo a scendere il c’è voluto il procuratore aggiunto Alessandro Milita, che con lui si è confrontato per lungo tempo sulla triste vicenda. Bruno, ieri, con un gesto eclatante, è salito sul tetto di un padiglione del carcere urlando tutta la sua rabbia: “Io ho regole da far rispettare – ha detto rivolgendosi al magistrato – e i detenuti le devono rispettare. Ma si è perso pure questo. Io non rappresento più la legalità“.
Ed è notizia di oggi quella di un detenuto extracomunitario che si è barricato nella sua cella con un coltello; scene di ordinaria amministrazione in un carcere che non ha ancora l’allaccio alla rete idrica, e in cui ogni estate l’acqua si prende dai pozzi, con rischi per la salute sia delle guardie che dei detenuti. Ma la carenza idrica è un argomento di cui si tornerà a parlare a breve; per ora sono i fatti di ieri a tenere banco, collegati alla maxiperquisizione del 6 aprile scorso, quando circa 300 agenti della penitenziaria, con rinforzi da Napoli, entrarono nelle celle sequestrando spranghe ottenute dalle brandine, altre armi improprie; i detenuti lamentarono di essere stati picchiati, partirono le denunce del garante e dei familiari, con degli audio delle presunte violenze consegnati alla tv. Ma dai verbali redatti in carcere di quei giorni, spunta anche l’ipotesi che qualche detenuto possa essersi ferito apposta, con l’aiuto di un altri reclusi, per alimentare la polemica e lo scontro.