Giovane educatrice casertana “costretta” a vivere a Berlino: “Ecco perché non torno al Sud”

17 Agosto 2019 - 17:30

CASERTA (Lidia e Christian de Angelis) – Valentina De Luca è una giovane illustratrice e assistente all’infanzia casertana trasferitasi a Berlino, che non vuole più tornare in Italia e in una lunga lettera invita i giovani a fare lo stesso:

In questi giorni il suo scritto sta facendo il giro delle testate nazionali.

La lettera nasce dall’esigenza della giovane di rispondere all’invito di un articolo del noto scrittore Franco Arminio, che invitava a rimanere al Sud.

Ecco la lettera. Leggetela:
“Seguo Franco Arminio da un po’ e condivido pienamente il fatto che porti l’attenzione sullo spopolamento del Sud, ma la sua intervista del 2 agosto (“Ragazzi, tornate, il Sud si spopola per il lavoro che non c’è”) non mi è piaciuta per niente. È vero, il Sud ha bisogno di una rinascita, è un peccato che lo svuotamento di questi territori stia portando alla perdita di certe tradizioni, costumi, maestranze, valori… E io, che sono di sangue per tre quarti campano e per un quarto siciliano, come potrei non essere d’accordo?

Eppure, io ho resistito fino ai 29 anni. Un bel giorno, stanca e arrabbiata, quasi all’improvviso sono partita per Berlino per fare la ragazza alla pari, esperienza che di solito le ragazze di buona famiglia fanno dopo il liceo – ma io sono figlia di un piccolo artigiano/imprenditore piegato dalla crisi e non ho avuto altra scelta: l’importante era avere un tetto e dei pasti garantiti, almeno per i primi tempi.

Cosa facevo prima di partire? Mi sono diplomata all’Accademia di Belle Arti, volevo diventare una restauratrice di beni culturali, ero riuscita ad entrare nel settore, grazie ad un corso regionale, tirocini vari e tanta tenacia. Volevo restare al Sud, o comunque avere base nella mia terra, essere indipendente e lavorare in cantiere spostandomi anche per brevi periodi su e giù per l’Italia.

Volevo contribuire alla bellezza, alla cultura, all’arte della mia terra. Volevo in qualche modo contribuire al restauro di essa, e non solo in senso tecnico-pratico: volevo trasformare positivamente la mia rabbia per il senso d’ingiustizia per essere nata in un posto colonizzato, invaso e lasciato in mano ai diavoli.

Ho lavorato per un anno tramite “subappalto” per una celebre famiglia di camorristi locali (l’ho scoperto dopo) in un cantiere di restauro con contratto co.co.pro con grossi finanziamenti europei. Finanziamenti europei vinti da un’altra celebre famiglia di camorristi che si occupano prevalentemente di cemento. 40 ore a settimana per 650 euro. Questa è stata l’unica paga mensile non in nero in tutta la mia vita da lavoratrice al Sud. Di questi 650 euro, almeno 100 se ne andavano mensilmente per il mantenimento della mia modestissima 500 Fiat di terza mano. Finito il contratto, stretta di mano, niente liquidazione (così funziona con il co.co.pro.). Ricominciai la ricerca e mi ritrovai in altri cantieri, stavolta in nero.

Dovevo arrampicarmi sui trabattelli, sui ponteggi senza avere alcuna copertura sanitaria. L’ultimo cantiere fu a Salerno: mi svegliavo alle 5 e mezza e partivo dalla provincia di Caserta per cominciare a lavorare alle 8 e mezza. Era un campanile alto più di 50 metri.

Con la titolare avevamo pattuito 500 euro al mese, in nero: non voleva darmi di più, diceva che siccome non stimava il mio ex datore di lavoro, considerava la mia esperienza pregressa uguale a zero e che quindi non meritavo altro.

Accettai, non avevo scelta. Un giorno ci fu un violento temporale, scendemmo tutti dal ponteggio e andammo nella stanza adibita a camerino per toglierci le divise bagnate. La titolare si arrabbiò con me, disse che le sembravo svogliata e che giocavo a fare la Masaniella, inducendo gli altri a smettere di lavorare per un po’ di pioggia. Si era già arrabbiata con me precedentemente perché il primo maggio non mi ero presentata a lavoro (non ero riuscita ad arrivare a Salerno per disfunzioni del servizio ferroviario).

Il giorno dopo avevo tosse e mal di gola, chiamai e le dissi che non sarei andata più a lavorare. Non ho mai più messo piede in un cantiere, né toccato un muro antico, una pietra, un manufatto. Ora, a distanza di anni, credo che fu quello il momento preciso in cui decisi di deporre le armi: non rinunciai solo a quel lavoro in nero, quel giorno rinunciai a lavorare come restauratrice, rinunciai ad anni di sacrifici, soldi e tempo investito per fare quel mestiere.

Rinunciai al mio progetto di restauro al Sud.

Dopo qualche mese mi trovai a Berlino: babysitter per una ricca famiglia italo-tedesca per un periodo relativamente breve. Poi cominciò l’iter tipico dell’italiano all’estero assai motivato: cameriera, baby sitter, ricerca di una casa, corso di tedesco pagato dallo Stato; poi tirocinio in una scuola italo-tedesca, corso di formazione come educatrice. Ora sono sette anni che faccio questo mestiere. E ne vado fiera. È considerato un mestiere malpagato qui, ma posso permettermi di vivere da sola, pagarmi le bollette, e concedermi qualche capriccio low cost. Non sono diventata ricca e famosa, ma direi che è già una grande conquista per una cresciuta in Campania. Sono fiera della mia scelta, e rifarei tutto, sono felice di essermi riscattata come donna e come meridionale in terra straniera, di aver conosciuto gente di tutto il mondo e di aver raggiunto competenze che restando nella mia “comfort zone” non avrei mai potuto raggiungere.

Se potessi, tornerei anche domani ad una vita più semplice, con dei ritmi più lenti a mettere in pratica tutto quello che lavorativamente ed umanamente ho imparato qui, in questo paese “più civile”. Per la verità, l’anno scorso ci ho anche provato: mi sono presa una pausa da questa città che mi ha dato tanto, ma che mi ha anche fatto tribolare tanto, e sono tornata al Sud per un po’. Mi duole ammetterlo: ho fallito. Ho fallito perché non me la sono sentita di accettare di lavorare per 400 euro al mese. Le ottime referenze, l’esperienza sul campo, un titolo quinquennale e un corso triennale seguito a Berlino, che in Italia equivale ad una laurea triennale, forse mi hanno resa un po’ arrogante: avevo l’assurda pretesa di guadagnare almeno 1000 euro al mese facendo uno dei mestieri più belli e usuranti del mondo, l’educatrice.

E così me ne sono tornata a Berlino “cu ‘na mano annanz e ‘n’ata arreto”, come diciamo noi. Sono ritornata lo scorso gennaio nella casa che avevo subaffittato nel frattempo ad una coppia di napoletani: uno laureato in lingue e l’altro grafico. Di dieci anni più giovani di me, emigrati più o meno per le stesse ragioni per le quali ero partita io: “al Sud non ci sta lavoro. E quando ci sta, sei trattato da schiavo”.

Tornare al Sud? Se non hai un patrimonio o un capitale da investire, se non conosci le persone giuste e se non hai almeno una casa di proprietà, è praticamente impossibile.

Chi dice il contrario è semplicemente disonesto, perché io, come ho raccontato fin qui, parlo per esperienza. In Germania posso vivere dignitosamente, in Italia sarei diventata una bambocciona a casa dei miei. Sulla soglia dei 40, dopo anni da vita all’estero. Tornare a fare la figlia di mammà non è proprio il massimo per una che si è fatta il “mazzotanto” e se l’è cavata da sola per anni.
Ora a Franco Arminio vorrei fare una proposta provocatoria: trovamelo tu un posto da educatrice al Sud.
Trovamelo a 800 euro, come dici tu, ma trovami pure un buco dignitoso in cui vivere vicino al lavoro, in modo da non dover comprare una macchina.

Poi io con questi 800 euro ci dovrò pagare anche l’affitto e le bollette. Sai, va bene la semplicità, la lentezza, va bene la vita non consumistica, va bene tutto quello di cui parli tu – cose che in genere condivido – ma io non vorrei vivere sotto un ponte: vorrei pagarmi un tetto e quattro mura senza arrivare a fine mese con l’ansia di non poter pagare il padrone di casa.

E infine gli 800 euro dovrebbero arrivare puntuali a ogni 28 del mese. E io non vorrei lavorare per 40 ore settimanali (magari in nome della lentezza paesana…) e vorrei i contributi ed essere trattata con rispetto dal datore di lavoro, non da un “padrone”.
Un’osservazione anche sull’esempio dei camerieri italiani a Berlino, citati come esempio negativo da Arminio. I camerieri, nei “paesi civili”, possono pagarsi un affitto e mettere anche da parte un po’ di guadagni. Cosa impossibile al Sud, ovviamente. Io ho fatto anche la cameriera: non ero brava, mi impacciavo e mi intimidivo davanti ai clienti, però ho capito, facendo la baby sitter, che mi piace lavorare con i bambini. Chissà forse non è un caso che abbia scelto la pedagogia, forse perché sono meno pessimista di quanto voglia credere io stessa e sogno un mondo migliore o forse perché ho preferito trasformare la mia rabbia in determinazione. E ci sono riuscita. Alcuni la chiamano resilienza, altri cazzimma, altri determinazione: forse nel mio caso è solo una questione di patrimonio genetico, vengo da una famiglia proletaria da almeno sette generazioni: rimboccarmi le maniche non mi pesa, è normale a casa mia.

La mia storia è soltanto un esempio, uno tra i due milioni di storie di meridionali emigrati negli ultimi 15 anni. Con il mio racconto ho solo voluto mostrare l’enorme difficoltà oggettiva che comporterebbe la scelta di tornare. Il Sud è dominato da Caini, e tutti sanno bene che 800 euro al mese (ammesso che arrivino…) sono accompagnati da condizioni da schiavi. E allora perché invitare i giovani a tornare? Per quanto possa amare la mia terra, io la schiava al Sud non la voglio fare più. Ci vengo per le ferie, mi godo i miei cari, ogni volta che ritorno mi intossico (nel senso metaforico-partenopeo) e mi riempio il cuore di bellezza, arte, cultura, tradizioni… Finite le ferie, riempio il mio bagaglio a mano e prendo il solito aereo per il civile Nord perché, al momento, altro non posso fare.
Poi si vedrà…”.