CORONAVIRUS. 3 ARRESTI. Fermati i “furbetti” del web. Vendevano online mascherine e altre protezioni fino a 5mila euro
27 Febbraio 2020 - 11:33
REGIONALE – Dovranno rispondere di frode in commercio le venti persone, definiti dagli investigatori ‘furbetti’ del web, denunciate questa mattina dalla Guardia di Finanza di Torino nel corso di una vasta operazione che ha coinvolto tutta Italia con perquisizioni ancora in corso in Liguria, Lombardia, Marche, Campania e Calabria. Nel corso dell’operazione sono state sequestrate migliaia di mascherine, purificatori per ambiente, visiere, copri wc e altri articoli destinati alla protezione delle vie respiratorie. Approfittando della situazione critica venutasi a creare in questi giorni con i primi casi di contagio da Coronavirus, alcuni commercianti hanno trovato il sistema per vendere a prezzi di gran lunga maggiorati , fino a 5000 euro per mascherina, centinaia di dispositivi di protezione individuale.
La ricostruzione dei vari assetti societari, supportata dall’esecuzione delle tipiche attività di polizia economico-finanziaria quali indagini tecniche e finanziarie, perquisizioni e sequestri di documentazione e l’acquisizione di testimonianze, ha permesso di risalire a tre soggetti, di cui 2 umbri, componenti di un’associazione a delinquere dedita alla commissione di reati tributari con un giro di fatture false per oltre 100 milioni di euro, che ha portato, a luglio dello scorso anno, ad un primo sequestro per equivalente di circa 5 milioni di euro.
Questi, avvalendosi di società di ”brokeraggio” appositamente create, hanno utilizzato compiacenti ”prestanome” per strutturare e gestire varie catene societarie, costituite principalmente da società ”cartiere”, anche note come ”missing trader” e con sede in Campania, Lazio, Lombardia e Molise, su cui far ricadere l’Iva mai versata nelle casse dell’Erario. Gli accertamenti scaturiti dal primo filone investigativo, portati avanti con analoghe metodologie investigative, hanno condotto ad un più ampio e sofisticato sistema di frode, con un vorticoso giro di fatture false di circa 700 milioni di euro, relative alla commercializzazione in Italia di prodotti petroliferi di origine comunitaria. In particolare, l’attenzione si è concentrata prima sull’individuazione dei reali gestori dell’illecita filiera, attraverso la ricostruzione della catena di approvvigionamento del prodotto lungo l’asse estero/Italia, e successivamente a svelare i meccanismi di riciclaggio dei capitali frutto della frode, grazie all’espletamento di mirate indagini finanziarie.
In questo modo è stato possibile individuare altre due società di ”brokeraggio”, che a loro volta si sono avvalse di ulteriori ”cartiere”, con sede in Campania, Emilia Romagna, Lazio, Liguria e Lombardia, create con l’unico scopo di interporsi all’interno della filiera di distribuzione del carburante tra i fornitori esteri e i reali cessionari nazionali. Ancora una volta, sulle ”cartiere” sono confluiti gli obblighi fiscali, puntualmente disattesi, e l’omesso versamento dell’imposta ha permesso così, a monte, di generare un prezzo d’acquisto inferiore, con la consapevolezza di tutti gli attori. Si tratta del meccanismo di frode maggiormente adottato dagli indagati, che sfrutta l’applicazione dell’Iva nel Paese di destinazione per gli acquisti di beni effettuati in ambito comunitario, prevista dalla normativa vigente. In realtà, l’Iva incassata dalla ”cartiera” dall’acquirente nazionale non viene versata nelle casse dell’Erario ma ripartita tra i partecipanti alla frode.
Negli altri casi, è stato riscontrato un differente meccanismo fraudolento: la ”cartiera” non acquista direttamente da un fornitore comunitario ma, dichiarandosi ”esportatore abituale” pur in assenza dei requisiti richiesti, acquista da un fornitore nazionale presentando la ”dichiarazione d’intento”. Con questo documento la ”cartiera” attesta l’intenzione di avvalersi della facoltà, anch’essa normativamente prevista, di effettuare acquisti o importazioni senza applicazione dell’Iva. I proventi illecitamente ottenuti sono stati poi riciclati su conti correnti appositamente aperti in Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca e Slovenia o trasferiti, dagli amministratori di fatto delle ”cartiere”, in attività economiche e imprenditoriali a loro riconducibili, alcune delle quali con sede negli stessi stati esteri.